Tre racconti: Il cane del cieco - Un genio sconosciuto - Galatea. Bersezio Vittorio

Tre racconti: Il cane del cieco - Un genio sconosciuto - Galatea - Bersezio Vittorio


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più terribile di quella che ci racconta Vittor Hugo aver tormentato il cervello di Jean Valjean nel più bello dei capitoli dei Miserabili. Al mattino uscì come le altre volte, ma si portò seco una bottiglia intiera di cognac.

      Lavorò tutto il giorno, come se nulla fosse; Pietro doveva arrivare alla sera ed avrebbe trovato tutto disposto secondo i suoi ordini. Il metallo era in fusione nei forni e cominciava a gittar zampilli di fuoco da qualche commessura, come se impaziente di prorompere e precipitarsi nelle bocche appostate entro le escavazioni inferiori. Un calore d'inferno emanava da quel focolare incandescente, in cui il ferro era liquido come l'acqua. Atanasio esaminò tutto per bene, diede le ultime disposizioni; poi, venuto il momento di cessare i lavori, dato un fischio ad Azor che si teneva prudentemente lontano da quell'inferno, si diresse a passi lenti verso casa sua. Erano le sei; il treno di ferrovia per cui doveva giungere il padrone non arrivava che alle dieci, tutti gli operai erano chiamati per quell'ora, affine di riceverne gli ordini. Atanasio aveva quattro ore innanzi a sè.

      Si recò a casa sua, e si vestì cogli abiti da festa. Canterellava fra sè co' denti stretti; ma doveva avere sulle sembianze la traccia dell'interno turbamento, perchè Azor sedutosi in un angolo della stanza lo guardava fiso in modo inquieto, con que' suoi occhi pieni d'intelligenza seguitandolo in ogni movimento.

      Tratto tratto Atanasio si fermava, pensava, rifletteva come uomo che fa per ricordarsi qualche cosa, e poi, dato di piglio alla bottiglia del cognac ne tracannava giù due o tre sorsi abbondanti. Quando fu vestito come gli pareva meglio, diede un'ultima sorsata e maggiore delle altre al liquore, si mise la bottiglia in tasca e fece per uscire. Azor, solito ad accompagnarlo sempre, si alzò sollecito e corse alla porta per seguirlo.

      — No, carino! — gli gridò l'operaio con istrano accento: — quest'oggi non si può: devi rimanere. —

      Il cane non volle subito tirarsi indietro: il padrone impaziente gli diede un calcio che lo mandò a guaire sotto il letto; Atanasio era già fuor dell'uscio, quando si pentì del suo brutto tiro e tornò indietro.

      — Azor! — chiamò con voce amorevole; e il cane venne strascinandosi colla pancia a terra, tutto umile, al suo cenno.

      Atanasio lo prese fra le braccia e lo baciò.

      — Chi sa se ti rivedrò ancora! — disse. — Sta' costì mio buon Azor, e Dio te la mandi buona. —

      Lo pose sul letto e poi uscì correndo.

      Trovò Lucietta, a cui disse voler parlare da solo a solo: aveva gli occhi stralunati, le mani e le labbra che tremavano; si vedeva chiaramente che l'infelice era fuori di sè.

      “O mio Dio! che cosa è avvenuto!” domandò ansiosamente la moglie di Pietro, spaventata a quella vista. “Qualche grande disgrazia?”

      Atanasio, come aveva sognato tante volte di fare, le si buttò in ginocchio ai piedi. Che cosa disse, non seppe mai egli stesso. Parlò come in delirio; e Lucietta, credutolo proprio assalito dalla follia, ebbe paura. Aveva essa fra le braccia il suo piccino e lo strinse al seno più forte e fece per fuggire. Il dissennato le impedì il passo.

      “No, no,” esclamò egli, “ora il dado è tratto. Voi non mi potete lasciar più che dandomi la vita o la morte.... Voglio che sia così.... O mia, o di nessuno mai più!”

      “Guardate quello che fate!” disse Lucietta. “Calmatevi; pensate al vostro amico, al vostro benefattore, a Pietro...”

      “Ah! non parlatemi di lui:” esclamò Atanasio digrignando i denti.

      In quella s'udì una voce chiamare dal cortile con allegra premura:

      “Lucietta! Lucietta!”

      Era Pietro, il quale, impaziente di rivedere la sua famiglia, arrivava col treno di due ore prima, per fare una sorpresa a sua moglie.

      Atanasio si gettò indietro quasi spaventato; quell'omaccione forte e robusto come un Sansone, si pose a tremare come un fanciullo. Che cosa avrebb'egli detto a Pietro? che cosa fatto ora in presenza di lui? Pensò un momento scannare Lucietta, poi gettarsi sul marito che accorreva, e sul cadavere di lui uccidere sè stesso. Ebbe paura egli medesimo de' feroci impulsi della sua anima. Corse alla finestra e la spalancò, non si era che al piano terreno e all'altezza del terrazzo; si slanciò nella strada e corse via, per l'oscurità della notte già piena, come un forsennato.

      Che cosa gli restava da fare? Agitò seco stesso la questione lungo tempo, senza decidersi a nulla. Quando suonarono le dieci, egli, come tratto da una forza fatale, si trovò al suo posto nella fonderia a capo degli altri operai.

      — Lucietta gli avrà detto tutto, — pensava: — fra Pietro e me che cosa sta per succedere? —

       Indice

      Il principale era stanco del viaggio, preoccupato dal pensiero dell'esito della grossa, importantissima fondita che stava per essere gittata; oltre ciò, venuto colla speranza di vedere la moglie felicemente sorpresa e tutta lieta del suo anticipato arrivo, la trovò invece turbata di sì strana maniera, senza ch'ella ne volesse dire la cagione, che al suo primitivo buon umore era successa una stizza latente, la quale non cercava se non un'occasione per venir fuori e sfogarsi. Fu aspro con tutti, trovò che il combustibile non era stato abbastanza sollecitamente scaricato e riposto, gli parve che il fuoco nelle fornaci languisse; ebbe un rimprovero per ognuno, e, più che cogli altri, fu acerbo e severo con Atanasio.

      — Sa tutto! — diceva fra sè quest'ultimo. — Or ora scoppierà la bomba: — ed accarezzava nella tasca il manico d'un coltello. — Meglio! Sono stanco di soffrire. La finirà una volta per tutte.

      Pietro alzò la voce con accento imperioso.

      “Avete udito tutti?” Disse dopo di avere ricapitolato le sue istruzioni. “Domani alle sei al posto.... e guai chi manca!”

      A quell'ora si sarebbero aperti i forni.

      “A vegliare stanotte,” soggiunse, “rimarranno....” parve esitare un momento, e poi terminò la frase: “Atanasio e Girolamo.”

      Erano il primo e l'ultimo degli operai. Atanasio saltò fuori dalle file.

      “Non ha nulla da dirmi signor Pietro?” gridò egli con voce alta e sonora.

      C'era tanta sfida nell'accento di quelle parole che Pietro si volse con aria di profondo risentimento.

      “Vi parlerò domattina:” rispose asciutto ed imperioso. “Ora fate quello che vi dico.”

      Se n'andò il principale, partirono gli operai, rimasero soli nelle officine Atanasio e quell'altro che doveva essergli compagno. Il primo di questi due scoppiò in una risata, proprio da pazzo.

      — Ah, ah il vile! — esclamò, parlando a sè stesso. — Vuole prorogare fino a domani la tragedia.... Vuole avere ancora questa notte per sè..... Questa notte?... Giuro al cielo e all'inferno!... —

      I forni incandescenti mandavano un calore veramente infernale, e quell'altro, facendolo notare ad Atanasio, propose di allontanarsi un poco.

      “Eh via! tu senti caldo!” rispose il forsennato. “Minchione! to'! bevi: questo ti rinfrescherà.”

      E porse al compagno la bottiglia del cognac, che l'altro non si fece pregare di molto per mettere alla bocca.

      “Bisogna anzi aggiungere ancora del carbone:” gridava Antonio. “Animo! Mano alla pala, e giù combustibile.”

      E congiungendo l'atto alle parole, cacciò a palate monti di carbone sul fuoco.

      Due ore dopo batteva la mezzanotte al campanile del villaggio: tutto era silenzio come in un cimitero, non si udiva che il crepitare del fuoco e il ribollire del metallo in fusione. Girolamo, finita la bottiglia del cognac, si era


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