Fuochi di bivacco. Alfredo Oriani

Fuochi di bivacco - Alfredo Oriani


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come Rodin, statisti come Cavour, apostoli come Mazzini, tribuni come Gambetta, condottieri come Garibaldi. E la canaglia vi pullula viscida, a mille colori, a centomila forme, una canaglia che disonorerebbe un bagno, con tutta la multipla, spaventosa bellezza dell'anima criminale: i meno pericolosi fra essi sono i più scoperti, i più ammirabili quelli che taglieggiano tutto, dal teatro alla politica, per gettare il danaro sopra un tavolo da giuoco o nel grembo di una cortigiana, capaci di scrivere il discorso di un ministro e di vendere un segreto di stato, mentendo con sì nobile bellezza di stile da finire col credere essi medesimi alla propria menzogna.

      Nella mia prima conversazione con Quintino Sella in casa di Marco Minghetti, l'illustre geologo, diventato già il più coraggioso finanziere e il migliore statista d'Italia dopo Cavour, mi chiese sorridendo:

      — Avete ancora scritto nei giornali?

      Non avevo allora trent'anni.

      — No — risposi fieramente, — e non vi scriverò mai.

      — Vi scriverete.

      Ricordo adesso il sorriso freddo d'ironia nei suoi occhi di contadino intelligente.

      Quello scettico, nel quale l'anima aveva una grazia socratica, e la parola gittava così spesso lampi e stridori di cristallo, indovinò anche allora.

      Ho resistito sino ai quarantasei anni, indarno.

      È questo un libro?

      Forse: se i suoi articoli non sono soltanto articoli.

      Casola Valsenio, 11 ottobre 1904.

       Indice

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      Una volta era premio al soldato, che dinanzi all'esercito urlante nell'assalto arrivava primo fra tutti a porre il piede sulle mura nemiche; oggi le vecchie città, che la vita moderna assedia dentro e fuori, lottano melanconicamente per conservare la loro corona di mura come una gloria di memore poesia.

      E tutti coloro, nè sono pochi, che il passato riattira in un sogno consolatore, levano la mano o la voce ogni qualvolta una nuova minaccia s'aggrava sopra alcuno dei monumenti, rimasti quasi ingombro nel mezzo di una via, come a protestare per la continuità della storia, la quale ha bisogno appunto del passato per indovinare l'avvenire. Nel nostro bel paese la battaglia cominciò all'indomani della rivoluzione, quando nell'ardore precipite del rinnovamento troppi spiriti ancora più mercantili che rivoluzionari si gettavano innanzi ad acquistare, nelle avventure del guasto necessario, una facile nomea di modernità o un più facile guadagno da appalti e da vizi. Molto fu cancellato e rifatto senza altra cura che di far presto; l'esaltazione del presente rendeva ingrati verso le vecchie cose e le vecchie idee; pareva potenza il dimenticare e superiorità il non capire.

      Quindi si videro ingegneri sbucati dalle università come da caserme avventarsi ovunque e tagliare nell'antico corpo delle città nuove strade come nel vuoto o sulla carta, la quale, per antica abitudine, sopportò e sopporterà sempre tutti i segni della ragione e della follia umana; dove il tempo aveva più addensate le case, piazze improvvise si allargarono, tutti i nomi si mutarono, non si rispettò alcuna architettura, e un'altra non ne sorse in tanto fervore di novità. Gli affari si moltiplicarono, rivoli di danaro passarono per i vani dove la prima volta entravano i raggi del sole, e una lindura quasi di bucato mutava la fisonomia delle strade, mentre i loro storici lineamenti si dileguavano, e molte, troppe delle grandi opere, nelle quali il genio del passato aveva pur significato una gloria immortale, sparivano fra un turbine di polvere e di parole.

      Ma poi la febbre decrebbe.

      La conquista dei venturieri, rimasti acquattati dentro le proprie case nei giorni sanguigni della guerra, e poi così ardenti nella battaglia delle aste governative e comunali, provocò una reazione: la politica del rinnovamento non bastò a giustificarne tutti gli eccessi, molte cose divennero note appunto perchè scomparse, e siccome il nuovo era bello raramente e aveva costato troppo alla ricchezza e alla onestà pubblica, quanto rimaneva ancora del passato nelle chiese, nei monumenti, nei palazzi, riapparve quasi in una subita rivelazione. I poeti suonarono la diana sulle alture, storici ed eruditi uscirono dalla dotta solitudine per schierarsi in coorte davanti alle superstiti bellezze, la folla stessa si compiacque di avere un passato ed applaudì vivamente coloro che glielo mostrarono rinnovellato da un qualche sapiente restauro.

      Adesso l'equilibrio fra coloro che, fisi all'avvenire, dimenticano persino il presente, e gli altri che, perduti nell'incanto delle poetiche lontananze, non si accorgono come tutto muti continuamente loro dintorno, è quasi ristabilito: la nostra coscienza nazionale, sicura nella rivoluzione compita, non odia più i vecchi ostacoli, contro i quali dovette esercitare sè stessa; la modernità risente acuto l'assillo della bellezza, questa eterna necessità della vita di comporsi a quadro e di chiudersi entro una cornice, la quale invece d'imprigionarlo ne sia come la continuazione.

      E se la prodigalità del genio antico nella incomparabile durata della nostra storia ci lasciò troppi monumenti, se attraverso la barbarie della miseria e della ignoranza troppo furono deformati, così che non basterebbe oggi tutta la nostra giovane ricchezza al riparo, una passione nuovamente giovane ci persuade ad amarli, e, come tutte le passioni, ci rivela tratto tratto i loro segreti più geniali.

      Milano non si gloria ora del proprio castello sforzesco ancora più che della Galleria? I nuovi scavi del Foro romano, che disseppelliscono al pensiero una Roma più antica di quella apparsa a' suoi primi storici, non sono forse una superbia del nostro tempo, e non riconducono verso di noi un'altra volta i più sapienti pellegrini dell'antichità, gli insaziabili innamorati di quell'impero e di quella civiltà, che prima unificò il mondo?

      E altrove, ovunque, nei borghi e nelle città lontanamente capitali del nostro medio evo, alveari dolci e sonanti d'insuperate originalità, qualcuno e qualche cosa si è desto: un amore, un orgoglio, cercano e rivelano i segni antichi; si studia e si scopre, e spesso per scoprire non importa che guardare.

      Il grande secolo decimonono, rinnovando così profondamente lo spirito umano, allargò forse le proprie conquiste più nel passato che nell'avvenire, poichè ci bisognava prima sapere chi eravamo e donde venivamo per scegliere sicuramente la strada della mèta.

      E l'Italia deve soprattutto essere bella per diventare ricca.

      La nostra arte, la nostra gloria ci mantengono una ricchezza più sicura che quella dei nostri campi: le nostre città hanno ancora ed avranno lungamente sugli stranieri una seduzione irresistibile nella loro antica fisonomia; il nostro genio deve superare l'ultima prova di crescere un'altra bellezza armonizzandola con quelle non pur superate della nostra vera infanzia nazionale.

      Il trecento e il quattrocento italiano furono pel mondo delle forme quanto i migliori secoli della repubblica e dell'impero romano pel mondo della politica: qualunque borgo abbia un castello lo serbi; e qualunque città porti corona non la gitti.

      Quale regina depose mai il diadema per il timore di comprimere la capigliatura?

      Sarà più bella Bologna senza le mura, anche se la nuova cinta aumenti il reddito del suo dazio?

      Poche città in Italia hanno un carattere più profondo e insieme più vario della illustre metropoli, alla quale noi da tutte le terre di Romagna, dal lido dell'Adriatico e dalla cresta dell'Appennino, guardiamo con orgoglio come alla capitale del nostro spirito, al potente mercato del nostro lavoro. La sua dottrina fu per noi ancora più calore che luce: nel suo centro ferroviario anche adesso ci sentiamo più vicini di ogni altro al cuore nazionale, se, come la scienza vuole, il cuore non è più che il massimo motore negli alti organismi; alla bellezza de' suoi palazzi, che i secoli moltiplicarono ben più variamente che in ogni altra città, tutta Italia guarda come alla più ricca raccolta di modelli, e dalle sue torri e dalle sue mura intatte ricordi e sogni si levano cantando alle menti che sanno, e alle fantasie che ignorano.


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