Fuochi di bivacco. Alfredo Oriani

Fuochi di bivacco - Alfredo Oriani


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e alla fede uno dei più puri monumenti, sorriderà ai compagni fedeli dell'opera nei giorni lunghi e faticosi, poi abbassando la testa si sentirà ancora solo come adesso, come sempre.

      Non importa: io vi conosco, poeta credente, anonimo maestro, che vi nascondete nell'opera degli scolari, vi conosco, e vi ringrazio a nome di tutti, specialmente degli increduli, che cercano anch'essi come voi, fra i segreti del passato e nella bellezza dell'arte, un motivo alla vita.

      14 febbraio 1902.

       Indice

      Perchè dunque si dice ancora che i poemi sono morti così lontanamente nel nostro spirito, che la loro anima non torna più nemmeno a scomporre il compiacimento rettorico dei letterati nel leggere le meravigliose contraffazioni dell'epopea nell'Eneide e nella Gerusalemme Liberata?

      Certo l'epopea, momento unico nella vita di un popolo e al quale pochi popoli poterono assurgere, è passata da un pezzo, ma poichè la poesia muta soltanto di forme, i poemi sopravvivono ancora nella pittura e nella letteratura aspettando dal tempo quella consacrazione, che impone silenzio alla critica e dà all'ammirazione un senso di mistica religiosità. Non è un poema il gran libro di Tolstoi, Guerra e Pace, che, in una scena più vasta della Russia stessa, ci rivelò a migliaia gli umili e i grandi, gli eroi e i villani, le anime ignare, liriche, tragiche dell'immensa guerra napoleonica, contro la quale il popolo slavo sorse innumerevole, tenace, paziente, e combattè e vinse ravvolgendo il nemico in una bufera d'incendi, di neve, di odio, di morte?

      Quando Tolstoi sarà antico nella storia delle letterature, i letterati paragonandolo ad Omero, vanteranno la superiorità del poema russo, benchè senza quella grazia formale del verso, rimasta in noi abitudine piuttosto che vero motivo di poesia.

      Il poema è ovunque e sempre la vita appaia nella profonda molteplicità de' suoi aspetti e riveli dalla fisonomia delle cose e degli uomini la segreta, ineffabile unità di una razza e di un tempo in qualche dramma.

      Così ogni cattedrale è un poema, nel quale e del quale vissero intere generazioni, architetti, scultori, pittori, poeti, coloro che nella chiesa sentivano soltanto la casa di Dio e quelli, forse in maggior numero, che vi lavoravano come alla prima e più duratura casa del popolo: sono poemi il tempio di Assisi, di San Marco a Venezia, di Sant'Antonio a Padova.

      Questa cattedrale, la seconda sorta dalla vivida trionfale passione francescana, non è opera di un uomo ma di una gente, non di un santo ma di una fede, che si dilata e non muta, si arricchisce e sale, combina le forme e gli stili più antagonisti in una bellezza fantastica e profonda, di poema e di romanzo, di leggenda e di mito, nella quale l'unità rimane misteriosa come il segreto stesso della sua creazione.

      Nata fra orti e giardini la cattedrale è anch'essa una enorme pianta sorta dallo spirito, che nelle proprie costruzioni impiega linee e materie diverse da quelle della natura: si può ammirare piuttosto che discutere: bisogna sentirla tutta per intendere il significato delle parti. Certamente il modello di San Marco era negli occhi e nelle immaginazioni di coloro che l'alzarono, così che sarebbe oggi difficile trovare nella basilica padovana quell'ideale corrispondenza col tipo del suo santo, come nel tempio di Assisi e in quello di Bologna.

      Padova era troppo vicina a Venezia, dalla quale tutto l'oriente entrava folgorando come un sole di altri mondi e di altre civiltà.

      Quindi la pittura paesana, perchè Padova pure aveva una scuola cresciuta dalla imitazione di Giotto, si provò a rivaleggiare nella decorazione col genio architettonico, benchè i suoi migliori artisti non fossero davvero, come il loro grande maestro già antico, abbastanza poeti per rivelare su quella immensa superficie di lati e di cupole il segreto delle pietre riunite dall'anima del Santo.

      Indarno più innanzi Squarcione strinse intorno a sè una nuova scuola, mentre, magnifico, unico pittore di Padova, il Mantegna era ancora bambino, e si provò all'opera deducendovi fra la combinazione di molte maniere italiane e tedesche il sontuoso desiderio orientale pei colori fiammanti e le ricche architetture, i marmi, i tappeti, le lampade tra un folgorio di raggi, una gloria purpurea di tramonti e di aurore. Indarno ancora più tardi, nel 1727, un architetto veneziano, preludendo da lungi alla moderna passione del restauro, che intende a ricollegare l'epoche fra loro, presentò e fece accettare un disegno per rinnovare le antiche pitture e compierle correggendo, magari falsando, perchè una istintiva preveggenza del guasto interruppe l'opera nella cattedrale, che rimase come nuda all'interno malgrado l'affastellamento intorno alla tomba del Santo.

      E fu bene.

      Per restaurare un monumento bisogna prima sorprenderne l'anima, quale i secoli la produssero e visse nella propria età; per compierlo, invece, non basta nemmeno l'intendere quell'anima, ma è necessaria la più minuta ed esatta conoscenza storica del tempo, una conoscenza ed una scienza impossibile quasi sempre ai poeti, che volano attraverso le epoche sulle cime più alte come le aquile, o scendono come gli usignuoli a nascondersi nell'ombra tentatrice dei boschi.

      Ecco perchè la fabbriceria della cattedrale padovana, mentre in tutta Italia riferve la nobile passione dell'antichità e l'anima nazionale torna all'orgoglio dei propri monumenti, indisse non è molto un concorso per decorare degnamente il gran tempio, mèta ancora oggi di tante anime pellegrine ed afflitte; ed ecco perchè il gruppo bolognese rappresentato dai tre maggiori artisti, Alfonso Rubbiani, Edoardo Collamarini e Achille Casanova, i restauratori del bel tempio francescano vinsero sopra tutti, offrendo di rappresentare nei piani e su per le volte delle cupole il romanzo, o, meglio ancora, il poema del Santo.

      Concetto vasto e temerario, che per magnifica spira sale dal giorno della sua morte, quando il popolo del sobborgo di Capo di Ponte, si levava in armi a difendere il corpo del Santo contro il popolo di Padova irrompente a fiumi dalle porte per reclamarlo come il genio e il talismano della città, insino a quell'altro giorno immortale, bianco e folgorante nella gloria del Paradiso cristiano e dantesco.

      Noi italiani siamo così: tutta la nostra arte, ogni qualvolta si volga a guardare indietro, incontra il sacro poema, che le sbarra l'orizzonte come una giogaia di nuvole fiammeggianti nell'altezza senza misura del cielo: da Dante solamente comincia la nostra coscienza e il nostro pensiero nazionale, perchè l'arte greca è di un mondo a noi lontanamente straniero, e l'arte latina fu appena un mirabile artificio, un intermezzo forse troppo lungo tra le due più profonde originalità della storia, quella greca e quella italiana.

      Col poema sacro nella mano la nuova scuola bolognese ha dunque vinto la sua seconda battaglia, e compirà l'opera secolare della cattedrale padovana dipingendo il poema del Santo, che, scolaro di San Francesco, potè nella gloriosa semplicità della propria natura e nella limpidezza dell'ingegno apparire originale.

      Ma la devozione francescana rifiorirà? Purtroppo è permesso dubitarne.

      Chi intende oggi San Francesco fra le anime oranti, se i devoti non amano che le chiese sontuose, nelle quali un'arte goffa, un gusto villano, una prodigalità prepotente sembrano cantare le lodi della ricchezza?

      La perversità del gusto gesuitico si allarga sempre negli spiriti religiosi: guardate le chiese di Lourdes, esaminate la nuova agiografia a quali fisonomie riduce i volti più austeri e più tragici, leggete i libri di devozione e confrontate le preghiere dei primi anonimi poeti cristiani con quelle che oggi scrivono letterati cattolici egualmente anonimi: ricordatevi i santi preferiti, le feste predilette: cercate il titolo degli altari consacrati da voti, e leggete le loro scritte.

      Come tutto è morto, senza fede, senza poesia, senza passione, nel culto moderno!

      Certamente la poesia e la fede sono immortali, ma bisogna essere un artista ben perspicace o un pensatore ben acuto, per rinvenirle sotto il triste ciarpame che le avviluppa, o per sentire il loro soffio nella rettorica, che discende lenta come un fumo grasso dai pergami.

      Il cristianesimo, uscito quasi intatto dalle ultime battaglie colla scienza e colla filosofia, soccombe adesso ad un marasma, che gli impedisce ogni espressione geniale e l'intendimento di quelle antiche, anche se la poesia e la critica rinnovellata dell'arte


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