Fuochi di bivacco. Alfredo Oriani

Fuochi di bivacco - Alfredo Oriani


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impennacchiato di fiamme, incoronato di spine, immobile, non batteva più.

      Perchè?

      Potrei tentare di spiegarlo: molti lo sanno, qualcuno lo dirà.

      Qui affermo soltanto che l'arte religiosa non è morta.

      23 luglio 1903.

       Indice

      Non ricordo più l'anno, ma è lontano come la mia giovinezza. La giornata era triste: una nebbia saliva diafana e leggera il colle seminudo e pareva un velario, dietro il quale Bologna taceva. Guardavo dall'alta vetriata rigata di grosse gocce tiepide, perchè la grande stufa vampeggiava quasi accanto a me agitando sul pavimento di legno lucido un riverbero cristallino.

      Marco Minghetti si scosse sulla sedia:

      — Ma concedetemi almeno, amico mio, che il suo Natale è bello!...

      — Bello! come? — rispose dolcemente De Meis.

      Mi volsi a tempo per cogliere la grazia fuggevole del suo sorriso: ma egli non aveva mutato atteggiamento: teneva un gomito sul tavolino e la fronte appoggiata sulla mano destra bruna e sottile quasi come una mano di donna.

      Siccome mi avvicinavo, Minghetti con quella sua amabilità diplomatica disse:

      — Non venite fin qui: vi unireste al professore per darmi torto: voi non credete a Manzoni e a nessun altro poeta vivente.

      — Datemi dunque un poeta, che metta nel verso tanta poesia quanta Mazzini e Garibaldi ne hanno messa nella loro vita. Manzoni è un romantico.

      — Come voi, ragazzo mio; ma il più rivoluzionario e il meno squilibrato dei romantici. Ha creato un'ode, una tragedia, un romanzo; nella nostra miseria letteraria basta.

      Minghetti mi guardò contento, ma seguitò:

      — Perchè dunque non trovate bello il Natale?

      Camillo De Meis parve raccogliersi:

      — Non conosco un solo inno degno del Natale. Il tema cristiano è bello: dunque vero. Lo spavento di una persecuzione ha fatto fuggire Maria, perchè Erode decretò la morte di tutti i bambini; i fuggiaschi riparano a notte in una stalla, e la Vergine vi diventa nelle tenebre madre di Dio. Quella stalla non è di alcuno: lei sola e il vecchio marito sono nel mistero; fuori il vento freme, la notte gela. Perchè Dio ha voluto nascere da noi? L'angelo annunziandolo a Maria non disse abbastanza, ella resistè un attimo quasi difendendo la propria verginità, e piegò sotto il mistero.

      Il filosofo s'interruppe: la sua fronte non molto alta si era fatta lievemente rosea, e la voce gli aveva tremato.

      Aspettammo: egli lo sentì.

      — Il Natale di Manzoni, — proseguì, — non sale, non vola: le sue strofe strette e lunghe sfilano dinanzi al poeta, che tenta lanciarne qualcuna nell'alto. No, no, egli non ha sentito il problema del Natale. Per quanti secoli di secoli la natura si era ripetuta nella nascita seminando il cielo di astri e i prati di fiori, riempiendo di viventi invisibili l'aria e l'acqua, le tenebre e la luce? Ma il suo dramma non diventa intelligibile che nell'uomo; egli sa che la nascita è una prima opposizione del vivente colla vita, dell'individuo, dentro il quale passa l'eterno ed è creato soltanto nel tempo. Dalla morte solamente egli apprenderà la vita, perchè la morte è il limite ultimo della figura anch'essa formata di limiti. Che altro è infatti la linea del suo disegno?

      — Parlate, parlate.

      — Per quanti secoli il dolore e l'amore umano avevano gridato davanti a Dio, per deciderlo a discendere nella nostra nascita? L'appello della gioia fu più eloquente che il gemito dello spasimo? Per quale pietà si decise Gesù? per quella dei buoni, o dei cattivi? E chi, che cosa davvero redense in noi? Egli volle passare solo, senza padre, senza moglie, senza figli; non volle essere di alcun tempo, di alcun luogo: non ebbe patria, non credette ad alcuna legge e non ne fissò alcuna. Parlò. La sua parola aveva l'aroma dei fiori, la sonorità del mare, il lampo della folgore: svegliava le anime, purificava i corpi: la vita si apriva davanti a lui come già il seno di Maria, la morte gli si inginocchiava davanti come un cavallo pronto a portarlo nella vittoria. Tutto il pensiero umano è nella sua parola, che come una musica si dilata inesauribilmente; tutta la esperienza umana è in lui, straniero che passa soltanto: tutto il dolore che crea, tutto l'amore che distrugge, sono nella sua parola di uomo, di donna e di Dio. Nessun segno esteriore lo distingue, nessun'opera lo segnala, ma la sua volgarità è pura, e la sua semplicità disciolse tutte le grandezze. Gesù!...

      E questo nome suonò come una invocazione.

      — Voi pregate, maestro.

      — No, sono come te, ragazzo mio: tu spasimi nella incredulità e maledici ancora la vita: io non penso più, guardo ancora qualche volta così, e non parlo.

      Io m'era appoggiato senza accorgermene alla spalliera della sedia, dalla quale Minghetti si era piegato ascoltando. Nessuno di noi due osò interrompere quel silenzio del vecchio filosofo, che l'Italia non conosceva e che nemmeno la morte ha poi rivelato.

      Egli era un santo del pensiero.

      L'ombra malinconica, che gli avvolgeva il viso, si fece quasi più densa e a poco a poco più limpida la fissità del suo sguardo.

      — Oriani, — mi si rivolse, — che cosa offriremo noi tre a Gesù bambino? Abbiamo qualche cosa nell'anima che possa essere un dono? Possiamo noi almeno comprendere il Natale?

      Imprudentemente Minghetti chiese:

      — Perchè?

      — Voi non siete padre, — rispose dolcemente De Meis: — io non lo sono, Oriani afferma con dolorosa superbia di non volere esserlo mai. È il figlio invece che crea il padre, secondo la grande parola di Hegel: è il figlio che del cuore del padre si fa la culla e lo muta per sempre. Coloro che piegandosi sopra una culla non hanno sentito la propria anima inabissarsi nella voragine della vita; che dinanzi alla nuova creatura non hanno dovuto dirsi: «sono io, io solo che l'ho evocata dall'inconoscibile a questa tragica e labile coscienza, e le ho dato il mistero per martirio e l'inafferrabile per mèta»: coloro che non hanno tremato della propria creazione riconoscendo nella creatura una vittima ed un giudice: coloro che non si seppero immortali in lei e non ne piansero di gioia o di dolore, e stringendo una culla non si tesero nello sforzo di gettarvi dentro l'universo; che cosa sanno essi del Natale? Noi tre siamo stranieri: Gesù non è nato per noi. Io non ho che dei morti: voi chi avete nella vita?

      — Mia moglie soltanto.

      — Avete sposato una madre, e non siete padre...

      Ma la risposta gli parve forse così dura che si alzò.

      Al solito egli non avrebbe parlato più per qualche tempo. Era stanchezza spirituale? Era inutilità del pensiero e della parola?

      Dentro la serenità del gran vecchio, io, così violentemente pessimista, sentivo come un deserto lucido, freddo, muto: una solitudine polare con un cielo senza sole e senza notte, con un silenzio ignaro d'ogni voce.

      Egli era solo, non aveva neppure la gloria, questo sole d'inverno che illumina, ma non riscalda. Minghetti gli si accostò, e gli prese affettuosamente una mano. L'illustre ministro era alto, roseo, colla fronte sfuggente sotto i capelli già bianchi, la bocca lievemente aperta ad arco e che il sorriso non animava mai. Minghetti non poteva sorridere: la sua bocca era così.

      Ma appariva contento.

      — Donna Laura è andata a Roma. Restate con me, amico mio: e voi, Oriani, tornate a casa per le feste di questo Natale?

      — No.

      — Ebbene, facciamo insieme la vigilia.

      — Non posso: la solitudine mi pesa, ho bisogno di sentirmela pesare sull'anima.

      L'accento di De Meis fu così doloroso che istintivamente guardai Minghetti.


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