Al di là. Alfredo Oriani
sedile.
Sembrava assai triste ed era solo.
Rimase lungo tempo colla fronte nelle palme, indi rialzandola vivamente, come chi ceda ad un pensiero improvviso, trasse un taccuino e colla matita prese a scrivervi febbrilmente.
Leggiamo.
«E avanti... Ventitre anni mi son passati sul capo, ma non ho inteso che gli ultimi cinque; il loro volo era freddo e le loro ali mi scorticarono la fronte: una volta guardandomi nello specchio quel segno mi sembrò al pensiero puerilmente orgoglioso il solco di un diadema che avrei un giorno portato. Apersi i volumi dei grandi, lessi le pagine immortali e piansi di ammirazione e di invidia. E nella notte vennero a visitarmi immagini sublimi, e sedute sul mio letto in colloqui, che non saprei più ridire, mi chiesero col sorriso della donna innamorata che dessi loro una qualche sorella. Quindi sognai di essere grande, mi percossi il petto ed ascoltandone l'urlo profondo mi parve di leone, onde esclamai: Sarò re! Ma le immagini presto dileguarono e piansi ancora, poi scrissi. I pensieri mi caddero dalla penna come le gocce di sangue dalla mannaia del carnefice; i saggi mi sorrisero di compassione e sorrisi io pure...
«Che sarà dunque la vita? E questa domanda morivami intorno senza risposta. Guardai, e vidi uomini logorarsela con micidiale fatica al solo scopo di mantenerla, altri consumarla nella noia in traccia del piacere, altri investigarla quasi la conoscenza ne potesse cangiare il modo o aumentare la durata, altri che la maledivano pensando al giorno di disfarsene, altri pochi che se ne disfacevano addirittura. Alcuni, che interrogai, mi mostrarono una donna, una borsa, un ciondolo, e non mi appagarono. Che sarà dunque la vita? Ne chiesi alla natura, e mi rispose; la madre e la figlia della morte: onde ne seppi quanto prima. E intanto mi sentivo come un viaggiatore stanco e sprovveduto che dovesse camminare senza strada, nè meta; la terra mi appariva sterile, il cielo una cappa di piombo come la volta di un immane sepolcro. Così durò finchè mi splendettero nella mente le visioni delle figure scomparse: poi mi si fe' buio nell'anima come intorno e mi calmai; l'uomo aveva ucciso l'artista.
« — Ora, mi dissi, camminiamo confuso fra la folla che si urta, schiamazza e muore. La vita è una lotta inutile; lottiamo per lottare, per opprimere, per essere oppressi; tutto sta nei sensi, nella gioventù e nella salute, e se la felicità deriva dalla ubbriachezza, trattiamo la fantasia da sgualdrina e con l'inno facciamo una canzonetta. L'aureola della gloria è fosforescenza di legno imputridito, luce senza calore; l'amore una melopea da educande; la fede un vestito di fanciullo che indossato da uomo rende ridicola la persona e difficili i movimenti...; la speranza... oh essa è la polvere che sollevasi sulla strada e la nasconde — non vedendo ove si vada, nè a che distanza sia la meta, non possiamo figurarcela vicina e quale meglio ci talenta?
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«Quando ebbi composto Ugo nel sepolcro, gettai la penna e presi lo schioppo. Nato sui monti e partitone, vi ritornai, e li corsi — com'eran belli! Spesso giunsi sulle loro cime coll'alba, e vedendo i suoi raggi stendersi sui densi castagneti, mi punse il desiderio di passeggiare sulle loro foglie lucenti come sopra un tappeto. Spesso salutai collo schioppo il sole che sorgeva, e nel tuono ripetuto e prolungato intesi una voce che mi diceva: Sii forte, imitami — io salto di rupe in rupe, non mi arresto alla palizzata di un bosco, al muro di una balza, alla gola di un burrone; l'eco mi abbraccia, ma sfuggo e vado a morire nello spazio, lungi lungi... Avanti.
«Queste parole mi commossero: scesi dalla collina e mi posai sulla sponda del fiume. L'acqua scorreva lenta, monotona, uguale, irresistibile: la vidi che percoteva le ripe per distendersi, ma invano, e si rompeva mormorando: Avanti...
«La notte, quando la campagna taceva, uscii verso il bosco: nè luna nè stelle. I pini dormivano: ne scossi qualcuno, che mi rispose con un triste muover di capo: Avanti: non mi rammentare che sono condannato all'immobilità, lasciami almeno dormire! Passai oltre: i virgulti mi sferzavano le gambe susurrando. Arrivai ad uno spianato netto ed erboso: v'era un lepre, e fuggì. Mi arrestai, e il vento passando sulla fronte mi bisbigliò egli pure: Avanti!... Per dove? Mi ero ingannato credendo di camminare senza altro scopo che il moto, di lottare senza altra ragione che la lotta?
«Il miraggio del deserto è dunque una consolazione e non uno scherno?
«Avanti avanti, mi zufolava spietatamente negli orecchi la voce, ma nell'anima nessun'altra le rispondeva, e il pensiero, smarrito nei valloni del dubbio, non scorgeva nè sentiero nè orizzonte. — L'uomo aveva d'uopo dell'artista.
«Ritornai a casa, e posato in un angolo lo schioppo mi sedetti allo scrittoio; la mano mi tremava febbrilmente nello stringere la penna, quando una folla entrò silenziosa per la finestra e per la porta. Clarissa, Virginia, Corinna, Margherita, Lelia, Cosetta si sedettero intorno sulle sedie ingombre di libri, e Manfredi, Hebal, Adolfo, Lambert, Faust mi cinsero lo scrittoio.
«Tesi la mano a Faust.
« — Anche tu mi ripeterai: Avanti! Fosti grande: vecchio sui volumi della filosofia un giorno la maledicesti; la intendo ancora quella tua ultima imprecazione — maledetta la pazienza! ma avevi i capelli bianchi e la schiena curva. L'occhio appannatosi sulle pergamene non metteva più lampi, e il sorriso errandoti sulle labbra si sprofondava dietro le gengive sguernite... Eri vecchio, eri un mostro...
« — Ebbene? interruppe Faust.
« — Ti sei mai pentito fra le braccia di Margherita del tuo patto con Mefistofele?
«Faust guardò Margherita sogghignando, ed ella arrossì.»
Due mani che gli si posarono sugli occhi gli fecero cadere il taccuino.
— Una donna!
— Bella?
— Un momento, e le toccava le mani.
— Bella? fu richiesto con voce tremola per la gaiezza di riso rattenuto.
— Sì.
— Da che lo supponete?
— Dalle mani.
— Potreste ingannarvi.
— Non lo temete, contessa; ho sognato troppo ciò che potrebbero offrire.
— Così che mi avete riconosciuta...
— Al profumo, come i fiori.
Le mani caddero, e il giovane volgendosi si vide innanzi una donnina gracile ed aristocratica. Vestiva un abito di seta giallognolo a frange di un colore più carico, col corsetto attillato e la gonna dietro raccolta, scoprendo così le forme della persona più sottile ancora che svelta, colle spalle acute e i fianchi pochissimo sporgenti: difetto più grave per la soverchia lunghezza della vita. E il petto senza busto tradiva appena la presenza del sesso, ma quella sua povertà era così insolente e sembrava ricordare così un'opulenza perduta nelle dissipatezze dell'amore, che più gonfio sarebbe stato meno seducente. Il viso aveva un'eguale fisonomia: di un ovale affilato anche troppo, un po' sgualcito, il naso lungo, la bocca grande coi denti magnifici e una fossetta sul mento. I capelli di un biondo italiano, quindi nè dorato, nè setoso, nè lucido, semplicemente biondo, si rialzavano in una eleganza gran parte nascosta dal cappello calabrese, colla tesa da un canto curva come un piatto e all'altro costretta sul cucuzzolo da una fibbia d'acciaio, dalla quale sorgeva una lunga penna di uccello forestiero.
— Mi guardate? gli rispose a una lunga occhiata.
— Lo sapete pure: mi sono promesso il vostro ritratto.
— Sono troppo bella, che non vi riuscite?
— Allora sarebbe già fatto.
— Gentile...
— Perdono, contessa, ma spero che non pretenderete alla solita bellezza dei vecchi e degli scultori. Nulla è più insipido di quella eterna regolarità di forme, e nulla più facile. In arte, come nel resto, io sono un ribelle e non amo le donne che rassomigliano alle statue. È la vostra bellezza che mi piace, perchè non risulta dalla plastica...
— Che cosa scrivevate con tanta attenzione? lo interruppe accennandogli il taccuino caduto.
— Nulla.
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