Al di là. Alfredo Oriani

Al di là - Alfredo Oriani


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fibbia di bronzo dalla quale si alzava una mezza ala di fagiano. Aveva i capelli nerissimi, ai tacchi lo sperone ungherese, sull'abito nessun altro ornamento che i cordoni per allungarlo o raccorlo, a seconda camminasse o cavalcasse. Alle spalle le stava un cavallo baio di rara bellezza, bardato con finimenti bianchi, curvo del collo disegnando un arco, e la criniera e le briglie sfioravano quasi il terreno. Così libero e immobile, che sarebbesi detto pensoso, gli occhi intenti sull'orme della padrona, aveva del fantastico. Dietro a qualche passo contrastavano vivamente la mora col suo cavallo: questo bianco, arabo, colla testiera e le redini di seta, quella vestita pure di un'amazzone nera ma, invece del cappello, con un velo egualmente nero sulla testa e una larga cintura di cuoio alle reni. Era bellissima per la sua razza.

      Il cane ruppe primo il silenzio, e la signora avanzandosi verso l'avvocato, che cercava degli occhi il cappello sull'erba per torsi l'imbarazzo delle mani vuote:

      — Ritorno appunto dalla vostra villa, gli disse col più amabile sorriso.

      — Oh!

      — Ero venuta per un colloquio e la signora mi ha trattenuta così, che malgrado il mio serio bisogno, me ne sono quasi scordata.

      Carlo s'inchinò per ringraziare, egli marito, di questo complimento alla moglie.

      — Mi permettete, ella riprese con accento più gaio, d'invitarvi adesso da me? Debbo chiedervi consiglio per una lite che mi si minaccia. Siccome contavo di passare questo inverno a Bologna, il mio corriere mi aveva scelto in quel goffo palazzo dei Fantuzzi l'appartamento nobile e l'altro interno per ridurlo a serra. Io amo i fiori come i bambini amano i confetti. Adesso il padrone, giovandosi di qualche inesattezza di espressione corsa nella scrittura vuole togliermi quello della serra, così che dovrei cercarmi un'altra casa. Ciò è spaventoso, ed ero corsa da voi ad accaparrarmi il primo avvocato di Bologna e vincere la causa. Oh! non arrossite, proseguiva vedendolo colorarsi in volto a quella adulazione: quando si sortì ingegno nascendo e si spese la miglior parte della vita in uno studio, si ha diritto ad essere stimati; la modestia conviene a noi donne, che non abbiamo altri meriti.

      E un fine sorriso le passò sulle labbra.

      — Che cosa mi dite mai, signora marchesa...

      — Vedete, il sole tramonta.

      — E la caccia è finita, molto più che non ne abbiamo fatto.

      — Coraggio, gli rispose Giorgio con una occhiata: se ne offre un'altra.

      Ma la marchesa non se ne avvide, rivoltasi ad accarezzare il cavallo che le lambiva la mano sguantata.

      — Ai vostri ordini, le disse quindi l'avvocato raccogliendo il cappello e adattandosi con certa galanteria il fucile sulla spalla.

      — Accettate di accompagnarmi? mille grazie; ma allora aiutatemi a presentare le mie scuse al signore, cui se non guasto più la caccia, tolgo il piacere della vostra compagnia.

      — Tieni, egli ribattè indirizzandosi a Giorgio con famigliarità malamente spiritosa: tu che mi trovi sempre noioso; ma non temiate di disturbarci, signora marchesa: quando sono con lui ozioso di professione, ozieggio io pure. Concedetemi pertanto di presentarvelo.

      — Il conte Giorgio De Vinci.

      — La signora marchesa di Monero.

      Giorgio mosse un passo e le si inchinò colla grazia di un perfetto gentiluomo.

      — Debbo accettare l'assicurazione del mio avvocato?

      — Pur troppo: non ho motivo per trattenere Carlo, e me ne duole perchè avrei il piacere di sagrificarvelo.

      — Sai, Giorgio, gli si voltò Carlo vedendo la marchesa disporsi a proseguire: tornando a casa, puoi passare da Mimy e dirle che se avessi a tardare non s'inquieti: sono dalla signora marchesa.

      — Ah! il signor conte la vedrà questa sera... e si fermò.

      L'occhio le cadde sopra un mazzetto di amorini sprofondatosele nel seno fra il vano di due bottoni: ne lo estrasse e presentandoglielo:

      — Potrei pregarvi, signor conte, di portarglielo, ricordandole che lo ponga domani sull'abito bianco? Capriccio! aggiunse smorzando il tono delle parole; ho domandato alla signora Mimy di mettersi domani l'abito bianco, che finiva appunto di ricamare, e le mando questo fiore, il solo che convenga su quello. Sarà così bella in quell'abito!...

      Egli prese il mazzetto, e la marchesa barattando un'occhiata con Carlo:

      — Allora, signor conte, bisognerebbe che dopo accompagnato questo mazzetto dalla signora Mimy, accompagnaste lei domani a pranzo da me. Veramente è un abuso, ma dirò al mio avvocato che lo difenda come un diritto...

      — Accetto, accetto: sono stato giurato e conosco Carlo.

      Tutti sorrisero, meno la mora, che, immobile sul cavallo, pareva non vedere e non intendere.

      Quindi la signora, facendo al conte un grazioso cenno, si mosse; l'avvocato si lanciò per prendere a mano il cavallo, ma questo fe' uno sbalzo.

      — No, no, Bothaina, ella esclamò chiamando l'animale aombrato e che ubbidì subito alla sua voce: vienci dietro così: libera come lo eri nel deserto. Vedete, Bothaina non può soffrire gli uomini; io sola la monto e Zisa la cura. Vi pare strano? proseguì vedendolo tra il meravigliato e il confuso.

      — Piuttosto...

      — Perchè? Vi sono pure tante mogli che non sopportano i propri mariti.

      E rise: egli l'imitò per non sapere di meglio. Poi le offri il braccio.

      — Neppure, rispose, temperando però il rifiuto con uno sguardo lusinghiero: è tanto raro che ci possiamo muovere libere che non so rinunciarvi e mi ritiro in campagna quasi per ciò solo. Guardate i miei abiti: preferisco l'amazzone a tutte le vesti da salone: in sella, e via su Bothaina e il vento che rompendosi vi fascia la fronte come un velo... Se sapeste quanta voluttà proviamo noi donne, a battere fieramente il tallone agitando le braccia invece di appoggiarle timidamente su quelle di un cavaliere spesso più fiacco di noi! Andiamo, Bothaina.

      L'intelligente animale nitrì e le si appressò quasi a lambirle il collo; ma ella lo respinse dolcemente, e fatto un ultimo saluto al conte si avviò con Carlo, del quale il portamento imbarazzato e l'ineleganza della persona apparivano adesso più vivamente.

      La mora li seguiva, sempre rigida, e passando innanzi a Giorgio non salutò come avrebbe dovuto un paggetto.

      Giorgio rimase ascoltando il calpestìo che s'allontanava, poi ricoricossi sull'erba e considerando gli amorini:

      — È strano! e parve cadere in una fantasticaggine.

      Il sole era già scomparso dietro il monte. I suoi ultimi raggi, aperti sopra l'azzurro del cielo come un immane ventaglio di fuoco, venivano mano mano smorzandosi: la luce si velava intorno e la campagna acquistava fondi più carichi e tinte più riposate. La sera montava dalla pianura allargandosi e insieme attenuandosi in alto, bella di una sommessa mestizia e di un sereno appannato. Appena qualche rumore fra le siepi e qualche voce dai campi. Gli alberi perdevano le fisionomie e laggiù l'Appennino si faceva bruno come un vecchio muraglione; pareva quasi un ammasso di nuvole trasportate da una bufera... poi si ottenebrava ancora e l'occhio si arrestava ai primi colli sui quali l'orizzonte si era abbattuto come una tenda. La pianura si era alzata e i pipistrelli usciti guardinghi dagli ignoti ripari vagolavano silenziosi ed incerti. Invano la canzone di un passeggiero in ritardo avrebbe voluto essere lieta, mentre l'ombra avvolgeva tutto fra i suoi veli, e ogni gorgheggio cessava fievole come il soffio del vento fra le piante frementi nei verdi mantelli. Epicureo moribondo, un fiore olezzava tuttavia, e una novoletta sospesa nel cielo quasi un'amaca sembrava aspettare qualcuno per andarsene. L'infinito che circondava la terra era svanito per sempre; solo la luna piccola e solitaria impallidiva nel cielo: adesso la terra era piccola.

      Giorgio fantasticava.

      L'Avemaria scoccò al campanile di una parrocchia, quelli della città le risposero, e un tumulto di suoni chiocchi e villani turbò per qualche momento la tacita serenità della sera.

       Egli


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