Al di là. Alfredo Oriani

Al di là - Alfredo Oriani


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densa, il fumo di un camino; laggiù nel piano prorompevano le fiammelle dei lampioni, così che da lunge poveramente e fantasticamente illuminata Bologna rassomigliava un grande cimitero corso da fiaccole mortuarie.

      — Che miseria quei lumi! esclamò finalmente. Ecco quanto gli uomini hanno saputo sostituire al sole; e se domani si dimenticasse di sorgere non avremmo nemmeno abbastanza luce per vederci morire.

      Dopo questa bizzarra riflessione raccolse il fucile sulla spalla e si allontanò. Lasciando la strada carrozzabile che saliva in serpeggiamenti alla vetta della collina, di là prolungandosi per erte e pendii, si mise per un sentiero chiuso da alte siepi di acacie, e digradando fu in fondo ad una valletta; donde rimontò per una strada frequente di ville, in quella stagione tutte abitate. Spesso s'incontrava in coppie di villeggianti, udiva dai cancelli il riso di persone sedenti al fresco, travedeva qualche forma biancheggiante di donna o ne intendeva la voce che talvolta cantava. Dopo mezz'ora si arrestò ad un piccolo cancello.

      — Come mai aperto! Lo spinse ed entrò in un recinto a quella luce incerta nè giardino nè bosco, piuttosto folto di alberi, in gran parte platani ed abeti: e si fermò al principio del viale che dava nel mezzo del casino.

      Una finestra del primo piano era aperta e n'usciva lume: un'ombra a quando a quando lo intercettava.

      Quindi le corde di un piano vibrarono.

      — È Mimy! e internandosi fra gli alberi venne a postarsi dietro un grosso ippocastano, contro la finestra, cinto al piede da un boschetto.

      Ascoltò.

      L'ombra fremeva: gemè un preludio di Chopin così delicato che parve il sospiro della sera: non saliva, non insisteva: erano note come staccate che si diffondevano svanendo in una melanconia senza nome, e altre seguivano egualmente lievi, e poi altre ancora e il tono calava e il silenzio sembrava palpitare. Se quella era una musica di dolore, divina ed infelice l'anima che lo patì! E dal preludio si svolse un canto indistinto, lento, ma a volta a volta con uno slancio ineffabilmente appassionato come di una farfalla legata ad un filo: una lotta soave e crudele che non poteva esprimersi senza quelle note e abbisognava della sera bruna, piena di reminiscenze e di brividi prima che la luna versasse tutto il suo chiarore e la solitudine si popolasse coi fantasmi della notte. Sembrava un'aspirazione verso un ideale incompreso che sorgesse da un'anima chiusa in una forma gracile e stupenda, come un dolce odore esala da un bel fiore, e perdendosi inutilmente si dolesse della propria delicatezza. Le note si fecero più rare, s'abbassarono languenti, sfinite...

      Il piano era muto e Giorgio commosso ascoltava ancora.

      Guardò alla finestra: l'ombra non passava più innanzi al lume.

      Quella musica sembrava aver desto l'anima del bosco, le frondi susurravano fra loro: qualche ramo luceva al raggio di una stella affacciatasi al suo balcone d'azzurro, mentre nell'aria udivasi come il passare di aerei fantasmi dalle lunghe vesti sibilanti che si inseguissero: la rugiada inumidiva lagrimosa le verdi pupille delle foglie.

      Giorgio era solo: nella casa e nel prato era silenzio.

      Attese che la musica ripigliasse fra la trepidazione della sera.

      D'improvviso sprizzarono le note di un fandango ebbre di risa e di baci e la voluttà levandosi in sussulto parve gittarsi nella ridda e riempirla di un disordine fragoroso e lascivo: gli occhi neri avventavano lampi, le bocche fremevano e il respiro ingrossandosi faceva arrovesciare le teste coi capelli ondeggianti... La ridda precipitava più veloce e più nuda, perchè le note, quasi mani convulse, alzavano le vesti... Giorgio fu trascinato: non potè resistere, si girò attorno un'occhiata e abbracciandosi d'un tratto all'albero cominciò una difficile e pazza ascensione. Giunse trafelato sulla forcata che la tormenta del Fandango aveva raggiunta la foga di una tormenta di sabbie e le ultime note cadevano soffocate, stritolate.

      Nella camera non si vedeva che un doppiere sopra un tavolo.

      Una bestemmia gli si frantumò fra i denti, ma indi a poco una donna, vaporosamente vestita di una lunga veste bianca, s'appressò al tavolo e si assise sulla poltrona: la sua posa era languida e la sua figura si rifletteva dietro in un alto specchio, illuminandosi più vivamente nel chiarore della lastra.

      — Se Ossian la vedesse in questo punto, Giorgio pensò, la paragonerebbe a Sumalla o ad Evirallina.

      La donna non si moveva dalla sua stanca posa; una treccia discesa in una piega della veste ne usciva sciolta in ciuffo; forse ella aveva cominciato a disfarla e s'era fermata prima che a mezzo.

      Passarono alcuni minuti: indi colla mano libera riprese la treccia, la disciolse, la diffuse: slegò il mazzo dell'altre lasciandone intatta una sola, e stette guardando fisamente per la finestra.

      La tenda era immobile, il vento era cessato; ella pure stava immobile e le candele la lumeggiavano.

       Sospirò forte, poi aprendo lentamente le braccia fe' colla testa un atto inesprimibile di seduzione, quasi che un fantasma le stesse dinanzi e non intendendosi bene col linguaggio degli occhi si movesse per abbandonarla: ma le mani non le caddero abbattute, anzi si levò, andò allo specchio e vi si mirò intenta. Poi si volse alla finestra; la tenebria facevasi mano mano più densa.

      Dal ramo, che stringeva colle ginocchia a guisa di una sella, Giorgio osservava comodamente nella stanza per il vano delle tende.

      Mimy si slacciò al collo la veste rigettandola dalle spalle perchè scivolasse; la veste scivolando si gonfiò come una nuvola e la nascose sino ai ginocchi; ella non aveva più che la camicia, strana, attillata quanto un abito, con un ampio bavero alla marinara e una cintura alle reni che le disegnava vagamente le forme della persona. Così contemplandosi si accomodò i capelli, stirò una calza scesa borghesemente in crespe, allentò la fascia, si sbottonò il pettorale con lentezza quasi di amante, che volesse bere a sorsi le voluttà delle bellezze che scopriva; poi lo staccò, e poichè voltava il fianco alla finestra, Giorgio potè ammirare una divina forma femminea. La camicia era diventata una mantellina a maniche.

      Allora si ammirò ella pure; poi fanciullescamente, a passi piccini, venne a prendere la mandola in sul tavolo, trasse la poltrona allo specchio e vi si adagiò: ma depose l'istromento sulla veste invece di toccarlo.

      All'insistenza della propria contemplazione quella donna doveva essere innamorata di sè stessa, poichè la vanità non bastava a spiegare la lunga e raffinata osservazione del bel corpo. Nella sua attitudine che avrebbe entusiasmato uno scultore posava dinanzi a sè medesima. Mollemente sdraiata sulla poltrona, colla camicia gettata sul dosso come un mantello, i capelli ondeggianti, una mano sotto il seno e un piede che scherzava colla cornice dello specchio, mentre la gamba vi si rifletteva in tutta la purezza del suo profilo... ella si inebbriava, insuperbiva forse, e non aveva torto. Le sue forme erano di grandezza mezzana ma di una inesprimibile castità artistica — bianca, bionda, fanciulla, all'aria estatica del volto e al fremente errare della mano forse assorta in un sogno di amore: sola, nuda, allo specchio, la mandola ai piedi, i capelli diffusi — figura poetica ed originale di voluttà e di bellezza! Giorgio la divorava. La stravaganza della sua ascensione sull'albero era superata dalla stravaganza di quella scoperta e dall'estasi solitaria di quella donna davanti a sè stessa e in sè stessa, giacchè quella nudità così pura e insieme così impudente prestavasi alle più bizzarre e audaci divagazioni.

       — Bella!... bisogna ch'io l'abbia, mormorò stendendo nell'ombra una mano verso di lei.

      La scena durava da quasi un'ora e la donna sembrava essersi assopita, quando un colpo piuttosto violento all'uscio la scosse.

      Stette in ascolto.

      Fu bussato nuovamente.

      — Chi è? ella chiese indossando lestamente la veste e respingendo d'un piede il pettorale sotto lo specchio.

      Giorgio non intese risposta, ma probabilmente fu un io, e questo era Carlo.

      — Che cosa facevi? domandò colla sua grossa voce fermandosi sulla soglia.

      — Nulla, rispose con un cenno.

      Le si accostò e fissandola talmente negli occhi, che dovette abbassarli, spinse la mano a una carezza: Mimy volle


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