Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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Forse due ore, forse più. È certo, però, che a mezzogiorno dormivo ancora, immerso in un lago di sudore, tra il ronzio d’innumeri mosche accanite contro la impenetrabilità della mia zanzariera, in una gloria di luce abbagliante, la terribile luce meridiana di questo leggendario Egitto misterioso. Ed è stata la luce a svegliarmi. Impossibile chiudere le finestre, se non si vuol morire per soffocamento. Ah!... che idea ha avuto il mio paese di mandarmi quaggiù proprio in agosto? Ma è stato poi il «paese»? Mi assale il dubbio che, all’infuori di due o tre persone del Foreign Office, nessuno sappia della mia esistenza e del mio attuale martirio. Ho detto Foreign Office? È stato un errore, certamente. Questo caldo asfissiante mi fa farneticare. E sto qui a gingillarmi sotto la doccia, come se non dovessi oggi stesso prendere i primi contatti!

      Suono per la colazione. Viene la «famme de ciambre». Voglio Mohamed, perbacco! Ma sembra che a quest’ora Mohamed stia facendo una delle sue cinque abluzioni quotidiane. Sempre le credenze religiose hanno ostacolato gli intrighi politici! Dovrò farmi servire da un cameriere in frak? Preferisco scendere a mangiare nella sala comune. Ma che caldo! Con il sudore che mi irriga la fronte e le gote, debbo avere un aspetto assai pietoso. Anche i miei capelli hanno perduto i loro riflessi di rame. Comincio a credere che mio padre avesse le sue brave ragioni, per vestirsi da pellerossa durante il passaggio dell’Equatore.

      Nella sala da pranzo sono solo. Sto per levarmi la giacca – lo so, non si usa mangiare in maniche di camicia, ma questo non è un paese protetto dagli inglesi? E gli inglesi non usano togliersi la giacca, quando hanno caldo e anche quando stanno per iniziare una partita di boxe? – ma mi trattengo a tempo. È entrata una signora. Carina! Un corpicino snello, due gambe fatte bene, un musettino grazioso e due occhi verdi. Gli occhi verdi sono la mia passione. Gli occhi verdi e le gambe fatte bene. Mi guarda. Oh! appena appena, e va a sedersi lontana. Deve essere inglese. Ma non escludo che possa essere francese o tedesca. Oramai questo genere di donne fatte bene e con gli occhi verdi si è un po’ generalizzato. Si direbbe che le producano a serie un po’ da per tutto e che le varie nazioni si facciano la concorrenza, tal quale le fabbriche di automobili. Di che marca sarà questa qui?

      Ma io domando, se ci si può interessare alle grazie di una donna con questo caldo! Sì, ci si può. Anzi, questo caldo produce un curioso effetto ipnotico. Ho detto ipnotico: non ridete! Dallo stato amoroso all’ipnosi la distanza non è grande.

      Non riesco a capire in che lingua parli.

      — Cameriere, quella signora abita nell’albergo?

      — Sì, signore. È una russa arrivata con l’ultimo piroscafo delle Messageries.

      Non avrei detto che potesse essere russa: ha le gambe diritte. Deve essere frutto d’un incrocio.... Ma russa? Ah! perbacco! Io sono qui precisamente per aspettare un gruppo di russi ai quali dovrò procurare qualche noia... Se questa qui fosse una «cellula» distaccata in avanscoperta?... Ragioniamo un poco: perchè una giovine donna venga in agosto ad Alessandria ha ben da avere una ragione grave. Dovrei parlarle, ecco. Anzi, è assolutamente necessario che io le parli. La cosa non sarà difficile, credo. Ma non qui: s’è seduta troppo distante e non alza lo sguardo dal piatto. Ecco: non ho più appetito. Vado ad attenderla nella hall.

      L’attesa tra le mosche non è lunga: la vedo venire. Mi guarda. Va alla finestra. Naturalmente la via Rosette è soltanto un fiume di fuoco, non sarebbe piacevole uscire. E lei non esce, infatti. Siede, accavalla le gambe, fuma. E io? Faccio lo stesso: però, le mie gambe debbono essere meno interessanti da guardare delle sue.

      Occorre rompere il ghiaccio.

      — Crede, signora, che domani avremo lo stesso caldo di oggi?

      Le ho parlato in francese. Ma la domanda è sufficientemente idiota, perchè lei possa credermi inglese. Mi risponde, infatti, in inglese:

      — Io soffro pochissimo il caldo.

      — La signora è russa?

      — Polacca.

      Ah! ecco perchè ha le gambe diritte.

      — Io adoro le polacche!

      — Anch’io, signore.

      Si prende gioco di me? Non importa: di noi due riderà bene, chi potrà ridere dopo.

      — Come vede, abbiamo qualcosa in comune.

      — Oh! abbiamo molte cose in comune!

      — Godo nel sentirglielo riconoscere.

      Sorride:

      — Il signore è solo ad Alessandria?

      — Stavo per rivolgerle la stessa domanda.

      — Una donna è sola e non lo è, a seconda dei casi e del proprio interesse.

      Ha detto: interesse? Io parlo ancora discretamente l’inglese; ma qualche sottile sfumatura può sfuggirmi. D’altra parte, ho i fondi segreti a mia disposizione.

      — E se le offrissi la mia compagnia, ella troverebbe l’offerta di suo gusto?

      Io ho detto: gusto. Come rettificazione, mi sembra abile e piena di delicatezza.

      — Non oggi, ad ogni modo. Debbo andare al porto ad attendere l’arrivo di alcuni miei amici.

      — Ah! e codesti suoi amici le permetteranno domani...

      — Essi, caro signore, permetteranno tutto quello che a me farà piacere.

      Si leva, mi stende la mano. Mentre gliela bacio, lascia cadere sulla mia rossa testa, queste parole sconvolgitrici:

      — Ho la stanza numero 8. Al primo piano. Questa notte, alle 24, sarò in camera. Genkuia pani.

      Salutandomi, ha voluto dimostrarmi di essere polacca. Dunque, è per questa notte. Non c’è male. Le cose cominciano a camminare. E non sono che le tre del pomeriggio. Arrivato ad Alessandria stamattina, non ho davvero perduto il mio tempo.

      Lieto di questo, accenno un passo di danza e canticchio: ella va al porto! ella va al porto! sull’aria del «Good Save the King». Ma forse avrei fatto meglio a ricordarmi del «Tipperary»: il concierge non deve essere monarchico. Me ne accorgo dal modo con cui mi guarda.

      — Mi farete cambiar camera, voi! La camera che mi avete data è troppo calda. Desidero il numero 7.

      — Allora, le farò dare il numero 9, signore.

      Non è monarchico, ma è tutt’altro che stupido: vada per il numero 9; penserà Mohamed a fare il trasporto dei miei effetti. Adesso, è più che mai necessario ch’io parli a Nikola. Esco, a questo scopo, e salgo in vettura: – Ramleh, – grido al cocchiere. Costui si volta, mi guarda, si tocca la testa e la fronte, inchinandosi di traverso. La carrozza non si muove: – Ramleh, per Allah!

      — Insh’ Allah!2 – mi risponde. Ma sembra che Allah non lo voglia, perchè la rozza bianca non dà segno alcuno di movimento. Mi sollevo in piedi sulla vettura e vedo un arabo lercio e strabico, con un incensiere in mano, che sta facendo strani segni davanti alla testa del cavallo.

      — Ohè! buonomo! E che cosa fa quella scimmia?

      — Za’ar... molto za’ar per arabya di povero Alì.

      Alì è lui, l’arabya è la carrozza, za’ar è l’esorcismo. Ho capito tutto questo, dopo cinque minuti di consultazione del piccolo vocabolario tascabile. E allora, aspettiamo che lo za’ar sia terminato! Ne vedrò di ben altre, in Egitto, non siamo che al principio. E del resto, ne ho vedute di peggiori, in giro per il mondo; se non altro, questa volta, ho nel portafoglio alquanti biglietti d’un grato colore e di solida filigrana e posso averne degli altri, quando voglio. Non per nulla sono «agente segreto» di una grande Potenza, di una di quelle grandi Potenze, che hanno diritto di vita e di morte qui e altrove.

      Il cavallo bianco finalmente comincia a trotterellare, sotto un sole di fuoco, tra le auto e i tranvai, i carri e gli omnibus. La strada di Ramleh è interminabile. Nikola abita in una via traversa. Eccola. Realmente, non ha un bell’aspetto;


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