Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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fredda, la luce delle lampade ad arco sul tavolo anatomico; guardarle negli occhi!…

      Prolungava il silenzio e l’attesa.

      Attesa di che?

      Né Dorotea Winckers Shanahan, né Virginia Worth sembravano attender nulla.

      Si sarebbe detto che la madre del Pastore non si fosse neppure accorta della sua presenza, tanto con lo sguardo andava oltre, lontano, nella sua fissità veggente. E l’infermiera era troppo preoccupata della sua compagna, per occuparsi di lui.

      Aveva scattato nel grido rivelatore, quando aveva compreso il tranello teso dal commissario alla vecchia, ma ora si era ripresa e De Vincenzi era sicuro che avrebbe ritrovato in lei la medesima astuzia pronta ed elusiva, di cui la donna aveva fatto prova poco prima, quando l’aveva sorpresa con lo gnomo a frugar nei cassetti del Pastore, per sottrarre in tempo qualche documento o qualche oggetto compromettenti.

      Lo gnomo!… Dov’era andato Matteo?… Dove era stato Matteo tutto quel tempo?

      Era possibile supporre che lui solo – o lui e Virginia – uscito dalla Chiesa per via Sant’Orsola, fosse poi rientrato pel portone di Piazza Mentana, avesse raggiunto la cucina, per far bere il veleno a Beniamino O’Garrich e abbatterlo per sempre?

      Fece un gesto e corse nella Chiesa. Matteo non v’era!…

      Cercò… I banchi vuoti… La Chiesa troppo nuda, anche con le sue colonne, per poter offrire un riparo, un nascondiglio… Dietro il pulpito, nulla…

      Stava per lanciarsi nel corridoio buio, verso la porta di Piazza Sant’Orsola, quando vide!

      E rabbrividì, perché comprese in un lampo!

      In mezzo alla parete di fondo, proprio dietro al pulpito, adesso era aperta una porticina, che, chiusa, doveva essere invisibile. Un passaggio segreto. E c’era una scaletta di ferro, a chiocciola.

      Di lì era passato l’assassino di Beniamino O’Garrich, poiché evidentemente quella scala conduceva al piano superiore e forse proprio dentro la cucina.

      Salì, rischiarando il buco d’ombra davanti a sé con la lampadina tascabile.

      Non si era sbagliato: quando col capo si trovò fuori della botola, vide subito in terra a poca distanza il cadavere del colosso.

      Un grido soffocato, inarticolato, di terrore, lo fece balzare in avanti, ed estrarre la rivoltella.

      In un angolo, appoggiato alla parete, con le braccia aperte, le mani annaspanti, gli occhi sbarrati, i capelli sconvolti, stava Matteo. Aveva tentato di parlare, di gridare, e dalla gola chiusa non gli era uscito che quel suono pauroso.

      — Parla!… Sei stato tu?!… Tu gli hai dato il veleno?…

      Il vecchio si contorse, sollevò verso di lui gli occhi atterriti.

      La mano di De Vincenzi, che lo aveva afferrato, si aprì.

      — Siedi… Calmati…

      Non poteva avere ucciso nessuno!… Il suo terrore era troppo evidente, troppo tragico, per potersi simulare. Doveva esser salito in cucina dalla Chiesa, senza saper nulla, e si era trovato davanti il cadavere… Non aveva avuto neppure la forza di fuggire…

      — Siedi…

      Lo prese lui stesso sotto un’ascella, lo condusse il più lontano possibile dal morto, lo fece sedere.

      Si guardò attorno. Vide un asciugatoio appeso al muro, presso l’acquaio, e, facendo attenzione di non calpestare i frantumi di vetro, ne coprì il volto al cadavere. Quegli occhi azzurri, sbarrati con angoscia davanti all’eternità e i lineamenti contorti nello spasimo supremo toglievano anche a lui ogni libertà di azione.

      Tornò verso Matteo.

      — Ascoltami, Matteo… Tu ti trovi coinvolto in un’avventura tragica… Io lo so, io lo credo; non sei stato tu ad ucciderlo… Ti toglierò subito da questa casa… riavrai la tranquillità… rivedrai il sole…

      Perché aveva nominato il sole? Un’oscura improvvisa intuizione e forse la vista delle mani quadre, callose, da contadino, dell’uomo gli avevano fatto pensare ch’egli fosse stato tolto dalla campagna e che, in quel momento di terrore, anelasse disperatamente alla libertà dell’aria libera, dei campi senza limiti di muri chiusi.

      Lo gnomo si agitò. Batté le palpebre. Il volto gli si distese. Sospirò. Lentamente sollevò una mano e se la cacciò nella barba rossiccia. Col ritrovare gli spiriti, aveva fatto subito il gesto che gli era abituale.

      De Vincenzi aspettò di vederlo un poco tranquillato.

      — Ascolta, Matteo… Quando sei rimasto in Chiesa con Virginia… prima che entrasse la signora Shanahan… che cosa avete fatto tutti e due?…

      — Abbiamo pregato!…

      — Sempre?… Avete soltanto pregato?…

      — Io sì…

      — E Virginia?…

      Esitò, poi disse:

      — Virginia è salita qui… – e si guardò attorno, rabbrividendo.

      — A che fare?

      — Non so…

      — Quando è ridiscesa, era turbata?… Hai notato in lei qualcosa di diverso?…

      — No… Si è subito inginocchiata a pregare…

      — Che cosa cercavate nei cassetti del Pastore?

      — Era Virginia che cercava… Mi ha detto: aiutami! facciamo presto!…

      — E tu non sai che cosa cercasse?

      — No…

      — Un paio di occhiali turchini?… Una barba finta?… Un cappello di paglia?…

      L’uomo aprì gli occhi dalla sorpresa.

      — No… Ma…

      — Va’ avanti… Dove sono tutti questi oggetti?

      — Non lo so… non lo so… – e alzò le mani davanti al volto, per proteggersi. Sapeva di mentire e temeva.

      — Li hai veduti, però?… Appartenevano al Pastore?…

      — Non lo so…

      Ma il suo sguardo era corso verso l’uscio, che De Vincenzi aveva lasciato aperto dopo la scoperta del cadavere, e al di là dell’uscio, nel corridoio illuminato, si vedeva la porta della stanza da letto del Pastore.

      — Aspetta qui!… Non muoverti!…

      — Ah! no!… No!… Non mi lasci qui!…

      E volgeva la testa, per non vedere il cadavere.

      S’era alzato. Si aggrappava con le mani al braccio del commissario.

      — Vieni con me, allora…

      Nella camera, De Vincenzi si mise a cercare.

      Matteo sembrava ipnotizzato. Fissava la spalliera del grande letto nero e non distoglieva lo sguardo da quel punto. Era evidente che sapeva dove si trovassero gli oggetti cercati dal commissario e non voleva tradirsi.

      Quando De Vincenzi, dopo aver frugato nei cassetti del canterano e dentro l’armadio, si avvicinò all’inginocchiatoio, di fianco al capezzale, l’uomo ebbe un sussulto.

      La predella dell’inginocchiatoio si apriva. In quel ripostiglio, del resto ben poco segreto, erano il cappello di paglia col nastro bianco e azzurro, gli occhiali e la barba finta dell’uccisore di Giorgio Crestansen, che non poteva non essere anche l’uccisore di Giobbe Tuama. Era ben sicuro di non venir mai sospettato, Giacomo Down, se non aveva creduto necessario distruggerli o nasconderli in modo più abile!

      Il commissario prese quegli oggetti,


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