Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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fumava una volta al mese, proprio nelle grandi occasioni…

      R

      Il «bigatt»

      Il Questore passeggiava nervosamente per l’ufficio e, poiché la stanza era stretta e lunga, egli aveva spazio sufficiente per quella sua corsa agitata.

      Il commissario si teneva contro l’uscio chiuso e osservava il suo Capo con pacata serenità.

      Sembrava più giovane, più fresco del solito, De Vincenzi. La primavera, che cominciava a dare a quelle ultime mattine di marzo una gioiosità cristallina e squillante, illuminava piazza San Fedele, oltre il balcone centrale della Questura, a cui si accedeva dall’ufficio del Questore. Certo doveva essere la primavera a dare quel rifiorente aspetto di gioia al commissario, gioia che neppure la preoccupata agitazione del suo Capo sembrava turbare.

      La corsa durava già da qualche minuto. Il Questore si fermò di colpo in mezzo alla stanza, di fronte a De Vincenzi. I suoi piccoli occhi penetranti sembrava volessero forare coi loro sguardi il volto impassibile del giovane.

      «Così, lei vorrebbe rilasciare il Ravizzani… rimandarlo alle sue cascine e ai suoi furti… soltanto perché non s’è trovato il cappello e il soprabito!… E della for male accusa del Panzeri, non tiene conto? E del fatto che quell’uomo non sa neppure negare, non tiene conto? E dei precedenti dell’indiziato, non tiene conto?».

      Fece una pausa, carica di collera contenuta.

      «Ma lo sa, De Vincenzi, quanti indiziati gravi, lei ha lasciati liberi di passeggiar per Milano, da quattro giorni a questa parte? Li conti un po’! Il dottor Verga… miss Drury…».

      «Oh quella!» sorrise l’altro.

      «Oh! Quella, un corno, caro lei! Quell’americana è una donna di nervi e di cervello, capace di metter nel sacco parecchi uomini e che avrebbe potuto uccidere non uno, ma dieci senatori Magni!… E poi, continui!… il fratello della cameriera… il portinaio e la portinaia dello stabile di via Corridoni… Ce n’è abbastanza, mi pare!… E forse la mia lista non è completa… Lei non vuol tener conto degli indizi… delle apparenze… dei precedenti… dei moventi, che ognuno di costoro ha… Lei li guarda, li interroga, li esamina… li giudica col suo metodo psicologico e poi li manda a spasso, decretando: non può esser stato costui, perché gli manca la capacità morale… intellettuale… nervosa… fisica, per commettere un assassinio, questo assassinio! E adesso mi vuol dar aria anche a quel vecchio avanzo di galera, perché non ha la capacità morale? Ma così dove andiamo a finire, De Vincenzi? La sua psicosi del delitto è una pazzia!».

      Il commissario sorrideva. Era un sorriso buono, pieno di affettuoso rispetto, il suo, e valse a far sbollire un poco la collera del Capo.

      «Lo sa dove andiamo a finire? Glielo dico io! Al Manicomio!».

      E sorrise anche lui. Sbirciò il garofano, che aveva all’occhiello, gli diede un colpettino col dito, per metterlo a posto. A De Vincenzi, lui voleva bene. Ciò non impediva però, che questa volta la partita fosse troppo seria, perché gli lasciasse le mani completamente libere. Era necessario, non già spronarlo, ma tenerlo sulla strada della praticità e della logica comune.

      «Lei sta pensando che io dico un sacco di bestialità, vero?».

      «Ma neppur per sogno, commendatore!».

      «Già! Ma poi va diritto per la sua strada, sino in fondo!… Può aver ragione lei, del resto! Ma se questa volta prende una cantonata, De Vincenzi, non gliela perdono!».

      «Lo so! Ed è per questo che non vorrei arrestare il Ravizzani…».

      S’interruppe. Gli era balenata un’idea. Che imbecille era stato a non pensarci subito!

      «Oppure, no, commendatore. Forse, ha davvero ragione lei. Adesso, vado giù, telefono al giudice, mi faccio firmare il mandato e spedisco il bigatt a San Vittore, prima di mezzogiorno…».

      Il Questore lo scrutava. Quell’improvviso cambiamento non poteva persuaderlo.

      «Che cosa ha nel cervello, De Vincenzi?».

      Il commissario non sorrideva più. Era assorto.

      «E un duplice delitto mostruoso, commendatore.

      Soprattutto lo strangolamento della ragazza. Rientra anche esso nel quadro, ma è terribile».

      Alzò la testa.

      «Adesso, le dirò sinceramente il mio pensiero. Io non credo, naturalmente, che sia stato il Ravizzani a uccidere, come non sono stati né il dottor Verga, né miss Drury, né gli altri, che lei ha nominati. C’è qualcuno nell’ombra, che ha commesso i due delitti e che ha saputo rendere l’ombra tanto fitta e spessa, da essere assai arduo distinguervelo. Chi? Non lo so. Posso sospettare almeno due persone; ma è sospetto estremamente fantasioso, per non dire fantastico. Ma qualcuno c’è. E, naturalmente, costui ha tutto l’interesse a mandare in galera un altro al posto suo. Anzi, credo addirittura che si sia adoperato abilmente a tale scopo. Orbene, se noi facciamo credere di essere caduti nell’inganno… se ficchiamo a San Vittore il Ravizzani… forse, riusciamo ad addormentare la diffidenza del vero assassino. E allora, chi sa?!».

      Il Questore lo aveva ascoltato con attenzione. Dopo una pausa alzò le spalle.

      «Può darsi che le cose stiano come lei suppone… A ogni modo, quel vecchio ladro non avrà davvero rubato anche quei pochi giorni di carcere, che gli faremo fare… se pure saranno pochi!».

      «Oh! Da questo lato non ho rimorsi!» esclamò il commissario.

      «Allora…» e fece un gesto di congedo.

      De Vincenzi aprì la porta.

      Il Questore continuava a guardarlo.

      «Lei mi ha chiesto otto giorni… e siamo già al quarto».

      «Gliel’ho detto, commendatore, all’ottavo verrò a presentarle le dimissioni…».

      «Bella consolazione!… Vada, vada!».

      E ricominciò a passeggiare per la stanza.

      De Vincenzi tornò nel suo ufficio, dove Sani e Cruni lo aspettavano.

      Traversò in fretta la prima stanza, dicendo: «Cruni!… Vieni anche tu, Sani».

      I due si affrettarono a seguirlo. Lui aveva già preso il ricevitore del telefono.

      «Mettimi in comunicazione col giudice istruttore dell’affare Magni… Sai chi è?… Bene. Digli che si tratta di cosa urgente».

      Sani e Cruni si diedero un’occhiata. Che, invece di dormire quella notte, avesse trovato l’assassino? De Vincenzi vide l’occhiata e fece di no, energicamente col capo. Poi, mettendo una mano sul cornetto, disse: «Io non ho trovato un accidente! Ma adesso, capirete».

      Tolse la mano e parlò nel microfono: «Buon giorno, signor giudice… No, no… Non sono ancora trascorsi gli otto giorni!… Può star tranquillo!… Ma oggi ho bisogno di un mandato d’incarcerazione al nome di Francesco Ravizzani… È un vigilato, recidivo… ha avuto una quarantina di condanne… Naturalmente, per il delitto di via Corridoni… Chi? Lui? Ma no! È più innocente lui di quei delitti, che io del peccato originale!… Non le posso spiegare di più per telefono… Ma si fidi di noi!… Anche il signor Questore la prega di questo… Oh Dio! Può mettere: accusa di trafugamento di oggetti appartenenti a due persone assassinate e presunto assassino. Vedrà che fra un paio di giorni dovrà farlo liberare… Ecco! Grazie…».

      Posò il ricevitore e guardò i suoi fedeli.

      «Avete capito?».

      «Ho capito» disse Sani «che mandi in carcere il bigatt con la sicurezza che è innocente!».

      «Sì. E necessario. Cruni, andate subito alla Procura del Re, fatevi


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