Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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uscì per primo.

      Il Questore trattenne De Vincenzi per un braccio: «Senta, lei!…» e lo fissò negli occhi.

      «Ho capito» fece il commissario.

      «Questo, però, desidero che abbia capito. Se l’indizio è buono, non se lo lasci scappare… per la ragione tutta sua personale che non rientra nel quadro psicologico, che lei s’è fatto. Mandi al diavolo il quadro e mi arresti l’individuo. Ha capito?».

      «Farò come lei vuole!» disse l’altro e raggiunse il collega per le scale.

      «Ascoltami, Roberti… Questo tuo “confidente” da che interesse è mosso?».

      «Che vuol dire?» s’inalberò quell’ottimo uomo, che già cominciava a sentirsi poco sicuro della scoperta fatta.

      «E chiaro. Con che mezzi lo tenete? Il denaro? La paura? E un vigilato? Insomma, quali sono i rapporti, che lo legano alla Questura?».

      «E un vigilato…» disse il commissario e si arricciò i baffi, facendo una pausa.

      S’erano fermati sul pianerottolo. Passò quasi di corsa un agente con un fascio di carte fra le mani. Volle salutarli e le carte gli caddero, De Vincenzi si chinò a raccoglierle.

      «Oh cavaliere… Grazie, cavaliere!… Scusi… scusi…» poi riprese la corsa, tutto rosso.

      Roberti guardava con imbarazzo il collega, che s’era sollevato.

      «Ti debbo dire… Quest’uomo non è proprio un nostro “confidente”. E più che altro un uomo di Harrington… Sai? Il detective privato di via Dante…».

      «Ah!» e il lampo d’ironia ch’ebbero le pupille di De Vincenzi fu così evidente, che Roberti arrossì di nuovo.

      «Non credi che Harrington sia un galantuomo?».

      «Certo certo… Un galantuomo, che si fa pagare dai suoi clienti per non esserlo… Vorrei sapere però chi è che lo paga, questa volta…».

      Roberti sbuffò.

      «Ne hai di belle, tu! L’essenziale è che questo suo “confidente” dica la verità! Che c’importa del perché abbia parlato?».

      «Naturalmente!».

      Erano giunti in cortile. Il commissario di via Meda fece segno a un uomo, che si teneva appoggiato a una colonna.

      L’uomo gettò il mozzone di sigaretta che aveva tra le labbra e li seguì.

      De Vincenzi, passando per la prima stanza, sussurrò rapidamente a Sani: «Trattieni qui colui che ci segue» ed entrò nella sua con Roberti.

      «Vuol rimaner solo per interrogarlo?» chiese questi, che s’era accorto della manovra.

      «Se non ti dispiacesse… Perdonami, Roberti! Io ho i miei metodi. Valgono quel che valgono; ma insomma non ne ho altri e li adopero. Per di più, questo qui è un maledetto affare, che non mi fa dormire la notte. Mi sono messa un’idea per la testa, che ho paura di confessare anche a me solo. Sono tre giorni che la rimugino, chiedendomi se debba verificare i miei sospetti o se debba abbandonarli come pazzeschi. Credi a me: questo è uno di quei casi scabrosi, in cui a fare un passo falso, si rotola sino in fondo…».

      «Ma sicuro… sicuro… sicuro…» balbettò Roberti, a cui tutte quelle parole avevano dato il capogiro.

      Non era un intellettuale, lui! E neppure procedeva guidato da una propria sensibilità e tanto meno da una intuizione, sia pure lenta. Lui vedeva quadrato e tagliava grosso.

      «Allora, me ne vado… Mi farai sapere qualcosa… E, se posso servirti, per l’arresto dell’assassino, conta su me. Lo faccio col desiderio d’esserti utile e per null’altro».

      Adesso, si espandeva in profferte, pel timore d’apparire offeso o invidioso. Davvero non lo era. Soltanto, non capiva come mai si potesse discutere tanto un’informazione di un «confidente». Oh! Se non fossero esistiti i «confidenti», come avrebbe fatto la Questura? Pensava lui e non era colpa sua, se si era fermato ai metodi e agli usi di qualche anno prima, quando c’erano le guardie regie e tutto il resto!

      De Vincenzi gli strinse la mano con cordialità: «Grazie e capiscimi!… Ma del tuo aiuto, come di quello di tutti, ho sempre bisogno».

      Quando Roberti fu sulla porta, gli disse: «Allora, mandamelo qui ti prego» e andò a mettersi nell’angolo della finestra, con le spalle alla luce.

      Voleva guardarselo bene in faccia il tipo che entrava.

      Un tipo, infatti. Quel che colpiva subito, in lui era il colore del volto. Non era pallido, né rosso, né livido, né cianotico, né moro, né mulatto, né aveva alcun altro colore d’un volto consueto o soltanto, se pur raro e insolito, naturale: era cinerino. Neppure, anzi. Si sarebbe detto che quel volto fosse tagliato e modellato nella creta calcarea e proprio pastoso, rugoso e poroso come la creta. Faceva impressione.

      Gli occhi apparivano spenti, tra le palpebre socchiuse, sotto la fronte bassa. La mascella sfuggente, il mento appena accennato, le labbra sottili accrescevano l’impressione d’un essere moralmente disossato, obliquo e viscido. La testa posava su spalle a baule, che continuavano in un corpo piccolo e meschino.

      Entrò, tenendo il cappello con una mano dietro la schiena, quasi volesse nasconderlo, e con l’altra si toccava i ciondoli, che gli pendevano dalla catena di rame, sul panciotto.

      Per tutto saluto, piegò la testa sul petto e attese.

      «Che fate, voi?».

      Spalancò gli occhi, che apparvero senza luce, opacamente inespressivi.

      «Come, che faccio?».

      «Dico di mestiere».

      «Servo nella Chiesa della Consolata… a Porta Nuova…».

      «Siete scaccino, insomma!».

      «Servo quel parroco e i fedeli…».

      «E fate il “confidente” della Questura, nelle ore di riposo?».

      «Chi gliel’ha detto? Le cose non stanno così».

      «Sentiamo, allora».

      «Ecco».

      Ma taceva. De Vincenzi gli disse: «Prendete quella seggiola dietro di voi… Sì, quella… e sedetevi… Bene… Adesso, ditemi come stanno le cose».

      L’uomo sedette e posò le mani sulle ginocchia, col cappello pendente dalle dita. Ma aveva tale abitudine, parlando, di congiunger le mani sul petto e di fregarsele poi lentamente, una contro l’altra che fece subito quel gesto e il cappello cadde. Gli diede un’occhiata e non lo raccolse.

      «Servo nella Chiesa della Consolata, perché è stato Harrington a volere che prendessi quel posto… Egli aveva bisogno di un uomo suo, in quell’ambiente… Forse, pensava che nessuno avrebbe diffidato di me».

      «E ha anche pensato che voi avreste potuto procurargli qualche cliente, approfittando della dimestichezza che i devoti e soprattutto le devote avrebbero avuta con voi».

      «Non so…».

      «E per di più gli sareste stato utile nei casi d’informazioni matrimoniali e in quelli di adulterio».

      «Non so…».

      «Lo so io. Continuate».

      «Così, in realtà io sono uno degli informatori dell’agenzia del signor Harrington… e non un “confidente” della Questura».

      «Bene. Dunque, per far questo servizio di oggi, siete pagato».

      «Di quale servizio parla?».

      «Dove avete pescato l’assassino del senatore Magni?».

      «In un’osteria».

      «Quale?».


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