Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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lei non mi abbia fatto prima questa domanda, io me la sono fatta subito. Dove sono stato nella notte da lunedì a martedì? Per un nottambulo girovago quale io sono… il fatto più sorprendente, come coincidenza, è che io, proprio ieri notte, sia rimasto in casa. Mia moglie era sofferente… Nulla di grave… Mali passeggeri di un organismo anemico. Io adoro mia moglie. E le sono rimasto accanto tutta la notte».

      Fece una pausa, poi prese dalla tasca il portafogli, ne trasse un biglietto di visita, lo mise sul tavolo, dandogli un colpettino col dito, perché scorresse verso il commissario.

      «Non le ho ancora dato il mio indirizzo». De Vincenzi non toccò il biglietto. «Non m’interessa! Perché dovrei andare a casa sua?». Ma aveva letto l’indirizzo: corso Plebisciti 17. «Come vuole! Però, se ha bisogno di un medico, disponga di me. Glielo dico sinceramente».

      E col cartoncino si mise a fare una piccola oca. Le sue dita grassocce si muovevano rapide e abili. L’ochetta alzò la coda e le ali sul marmo. Lui la guardava sorridendo. Stese la mano per bere. Il bicchiere era vuoto. Subito, De Vincenzi chiamò: «Cameriere! Quanto fa?». E rivolto al compagno: «Usciamo!». «Stavo per dirglielo io».

      Bevve un bicchier d’acqua, in mancanza dell’alcool. Doveva avere il palato secco.

      Quando si trovarono in piazza Beccaria, cominciava il lavoro degli spazzini.

      Risalirono via Cavallotti; al crocicchio di via Cesare Battisti, il dottore si fermò. «Dove andiamo?».

      «A guardar dal di fuori il negozio dei libri…». «Troppo tardi!» mormorò Marini. Il negozio era naturalmente chiuso. Si fermarono. Il dottore rise.

      «Appartiene a Chirico. Uno strano tipo!». «Lo conosce?».

      «E segretario del Circolo di studi psichici…». «Frequentava il negozio, lei?». «Qualche volta. Mi piacciono i libri, per quanto non comprenda la mania di coloro, che se ne empiono la casa, senza neppur leggerli! Io li leggo e poi li getto via». «Tutti?». «Quasi».

      «Quali libri preferisce?».

      «Non ho preferenze! Leggo per imparare. In ogni libro, per meschino che sia, c’è da apprendere qualcosa, che serve a condursi nella vita».

      De Vincenzi andò a scuotere il portone dello stabile, che cedette subito. «È sempre aperto questo portone!». «Nelle case popolari accade facilmente. Tutta gente che non teme i ladri».

      Il commissario pensò: «Se andassi a svegliare la portinaia e suo marito?».

      A quale scopo? Avrebbero maledetto l’importuno! E che c’era da apprendere, a interrogarli?

      Aveva dato un calcio al portone, che s’era aperto, e guardava dentro l’androne illuminato da una lampadina rossastra. «Che vuol fare?». «L’assassino è uscito di qui». «Come lo sa?».

      «Mentre invece, per entrare nel negozio, era passato dalla porta esterna, sollevando la saracinesca. Si trovava assieme a Magni, allora. E Magni, naturalmente, era vivo, né sapeva di dover morire dopo poco».

      «Ma… in tal caso, avevano la chiave?».

      «Non è detto. Quelle serrature si aprono col più semplice dei ferri curvati».

      «Uno del mestiere, però!».

      «Può darsi!».

      E il commissario si allontanò in fretta dalla casa.

      «Adesso, me ne vado a letto. Sono le tre e mezza suonate e voglio dormire almeno sei ore».

      «Vuole che l’accompagni in tassi?».

      «Non importa. Lei abita lontano da me».

      C’erano due tassi fermi al principio del Verziere. De Vincenzi mise la mano sulla maniglia del più vicino.

      «Grazie della compagnia».

      «E le sue indagini?» chiese di colpo il dottore. «Troverà l’assassino?».

      «Lo sa che stanotte hanno strangolato Norina?».

      «Che cosa?!».

      Sembrava turbato.

      «Povera ragazza! Ma perché?».

      Il commissario s’era seduto nell’interno della macchina. Lo sportello rimaneva aperto.

      Dal fondo del sedile mandò una risatina nervosa.

      «Se sapessi perché l’hanno uccisa, conoscerei il nome di chi ha assassinato il senatore!».

      Il dottore, illuminato in pieno dalla luce del grande globo a incandescenza della piazza, s’era tolto il cappello e si passava la mano sui capelli folti. Aveva la fronte molto alta. Così, senza cappello, il suo volto rotondo acquistava nobiltà, si spiritualizzava, presentava tutte le caratteristiche dell’intelligenza.

      «Che dramma!».

      E fece un passo avanti per chiudere lo sportello.

      De Vincenzi mise la testa fuori.

      «Dottor Marini!».

      «Mi dica…».

      «Se le chiedessi di farmi assistere a una seduta spiritica, acconsentirebbe?».

      «Oh! Che idea!».

      «E tanto tempo che lo desidero!».

      «Ma lei è scettico. Gli scettici turbano tutti i fenomeni. Chiamano gli spiriti burloni. Non si combina nulla di buono!».

      «Chi le dice che io sia scettico? Invece, io credo fermamente che i morti tornino!».

      «Uhm! Ne parleremo… Ma non per adesso, sa? Non potrò rimettere piede tanto presto in via Broletto, al Circolo. Ci andavo sempre con Ugo. Tornarci ora, risveglierebbe i ricordi».

      «Buona notte!» fece il commissario e diede all’autista l’indirizzo di casa sua.

      Il dottore rimase fermo in mezzo alla piazza a contemplare il tassi, che si allontanava.

      R

      Il «confidente»

      Erano passati tre giorni.

      De Vincenzi li aveva trascorsi a leggere libri di spiritismo. Adesso, nel cassetto del suo tavolo, in Questura, c’erano le opere di Kardec, quelle di Leon Denis e di Delanne. Aveva letto i due tomi di Delanne: Les fantòmes des vivants e Les apparitions des morts. E poi aveva ripreso a leggerli dal principio.

      Appariva silenzioso e concentrato. Aveva abbandonato tutte le pratiche correnti nelle mani del vicecommissario.

      «Fa’ tu…» gli aveva detto, con un sorriso amaro. «Tanto, è lo stesso!…».

      Sani lo aveva guardato con affetto. Conosceva ormai in lui quei momenti di chiuso arrovellamento, che erano decisivi ai fini di un’inchiesta. L’idea centrale, l’idea dalla quale doveva sprizzar la luce, sembrava che avesse bisogno di quelle ore, di quei giorni d’incubazione, per germinare.

      Ma erano ore di travaglio doglioso per De Vincenzi, giorni di scoraggiamento, nei quali non faceva che sognare la sua Ossola ventosa e tanto bella! E scriveva a sua madre: «Mammetta mia, come vorrei esserti vicino!».

      Nella casetta a pie dell’Alpe, con l’aia e le galline, il cane, la domestica…

      Aveva fatto rilasciar subito la mattina dopo Pietro Santini. E quello era corso al Monumentale a contemplare il corpo di sua sorella, che i periti settori avevano sezionato per l’autopsia. Poi s’era chiuso a casa e il «pattuglione» ve lo aveva trovato a tutte le ore.

      L’autopsia aveva concluso per lo strangolamento. Morta di soffocazione, prima d’essere immersa nell’acqua. Se non le ecchimosi al collo — le dita dell’assassino avevano stretto così forte, con tanta rabbia,


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