Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis

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scusi» proferì sorridendo il dottor Marini. «Mi è stato impossibile venir prima. Gli ammalati… la grippe… il morbillo…».

      «E viene a quest’ora?».

      «M’hanno detto che lei veglia tutta la notte…».

      «Io l’avevo invitata a venire nel pomeriggio…» interruppe gelidamente il commissario, ritrovando il suo equilibrio.

      «Infatti! Ma la grippe… il morbillo…».

      «E lei sta fuori tutte le notti?».

      «Qualche volta».

      «Ebbene, mi accompagni a casa, se vuole. Parleremo».

      «Volentieri. Camminare di notte per le strade deserte è uno dei miei piaceri preferiti… Mai come di notte ho il cervello lucido».

      De Vincenzi uscì pel primo e l’altro lo seguì. Il commissario vide l’ombra del dottore proiettarsi sulle pietre del cortile, illuminato dalla luna piena, e notò che era breve e quasi tonda, tanto l’uomo era basso, e, col soprabito aperto, appariva tozzo.

      R

      Giri attorno a un punto ignoto

      Infilarono la Galleria. Traversarono piazza del Duomo, girarono attorno alla Basilica, presero per piazza Fontana.

      Non era quella la strada per andare a casa di De Vincenzi, ma lui non aveva più sonno, adesso, e non sognava più il refrigerio delle lenzuola.

      Andava. E l’altro gli camminava al fianco. Tacevano.

      Davanti ai Tribunali, una donna li avvicinò e li squadrò in volto sfrontatamente, ammiccando. Poi s’allontanò e canticchiò «Io son pacifico…».

      Il caffè d’angolo era aperto.

      «Vogliamo bere qualche cosa?».

      De Vincenzi trasalì.

      «Entriamo!».

      Sedettero a un tavolino in fondo. La sala era deserta. Il cameriere sonnecchiava contro una parete. Sbadigliò, si avvicinò a quei clienti che non desiderava e pulì il marmo del tavolo con uno straccio, che aveva preso, passando, da un portastracci a forma di palla, di nichelio lucente.

      «Che prendono?». «Un caffè» disse De Vincenzi e il dottore lo guardò con disapprovazione.

      «Il caffè a quest’ora! A me darete un’anisetta doppia, in un bicchiere grande e un sifone di seltz…».

      Spruzzò appena col seltz il liquore e poi cominciò ad assaporarlo lentamente.

      «Non c’è nulla di meglio, per togliere la sete. Io ho sempre sete, a quest’ora. La digestione…».

      De Vincenzi non parlava. Sembrava si ostinasse di proposito in quel mutismo. Fissava il medico, che sorrideva tranquillo. «E dotato di una reale forza magnetica» aveva detto Chirico e lui voleva rendersene conto.

      «Ma non dorme mai, lei, commissario? Ieri mattina era sulla breccia alle nove, credo… e un agente, che ho interrogato poco fa, mi diceva che lei sta in ufficio tutta la notte…».

      «Uhm!» fece De Vincenzi e bevve il caffè. «Questa notte non ci sto, per esempio…». «Già…». «E lei, allora?».

      «Oh io! Io sono nottambulo per temperamento. Lo faccio per cura. Se dormissi molto, ingrasserei anche di più. E io non voglio ingrassare. È segno di vecchiaia!».

      «La stessa età?».

      «Come dice?».

      «Lei aveva la stessa età del suo amico… del senatore?».

      «No! Vede! Tre anni di meno, eppure, Ugo sembrava assai più giovane. In tutto così! Lui aveva sempre ogni vantaggio sugli altri suoi simili!».

      «Non ha avuto l’ultimo, però!».

      «E chi lo sa? A morire a quel modo c’è pure il lato buono. Ci si trova all’altro mondo, senza accorgersene!… Che crede che abbia sofferto lui?… Il colpo deve averlo sentito come un picchio sulla testa. E poi null’altro. Vorrei morire anch’io come lui!».

      Storse la bocca, come se disprezzasse se stesso.

      «Ma io non creperò così, io! Chi vuole che mi ammazzi?!».

      E bevve d’un fiato.

      «Cameriere, un’altra doppia, eguale, nello stesso bicchiere…».

      Poi fissò De Vincenzi.

      «Chi sa che cosa pensa lei, di me, in questo momento! Non badi a quel che faccio. La morte di Ugo mi ha sconvolto un poco… Gli volevo bene. In fondo, son circa trent’anni che vivevamo assieme. Ci siamo trovati in collegio, che io avevo dieci anni. Adesso ne ho quaranta. E non ci siamo mai perduti di vista. Lui ha preso la laurea; io ho preso la laurea. Lui ha preso moglie, io l’ho presa pure… Così…».

      Batteva con l’indice a martello sul tavolo, a picchi regolari, spaziati, e quei picchi avevano uno strano ritmo, come se rispondessero alle regole d’un alfabeto convenzionale. «Invece non hanno significato» si diceva De Vincenzi, che li seguiva, però, con intensa attenzione.

      «Lei ipnotizza, battendo a quel modo?». «Chi le ha detto che io ipnotizzo?» chiese con voce impercettibilmente alterata.

      «Nessuno. Ma credevo che i medici, chi più chi meno, praticassero quasi tutti l’ipnosi oggigiorno…».

      «Infatti… È un metodo di cura ottimo… Io non ne abuso, però. Stanca il soggetto. E io il soggetto cerco sempre di risparmiarlo».

      Quelle parole ebbero un suono strano, o sembrò a De Vincenzi che lo avessero. Forse era l’alcool, che gli rendeva roca la voce.

      «È molto tempo che pratica lo spiritismo?».

      «È appassionante!» esclamò il dottore, senza rispondere alla domanda.

      E fu il silenzio. Tutti e due seguivano il corso dei propri pensieri e soltanto di tanto in tanto ne manifestavano uno a parole. Era come se qualcuno si fosse divertito a tener la mano sul bottone di una radio e avesse aperto e chiuso a intervalli la corrente. La più gran parte della musica veniva suonata soltanto nell’interno dei loro cervelli.

      «Che cosa siamo? Di dove veniamo? Dove andiamo? La morte è l’annichilimento del nostro essere o l’alba d’una nuova vita, del tutto differente da quella che viviamo quaggiù?».

      «Già» fece De Vincenzi. «E lei parla con gli spiriti!».

      «Infatti, lo spiritismo è fondato sull’esistenza degli spiriti. Ma gli spiriti non sono altro che le anime degli uomini… Da quando esistono gli uomini, esistono gli spiriti».

      «E tornano in terra! Allora, lei crede che un assassinato possa andare a trovare il suo assassino?».

      «Cameriere, una terza anisetta doppia!».

      Gli occhi gli lucevano. Il dito batteva sempre sul marmo. De Vincenzi glielo afferrò e lo tenne stretto per qualche secondo.

      «Mi scusi! Ma io ho i nervi a fior di pelle… questa notte… La stanchezza… Lei non ha risposto alla mia domanda!».

      «Stavo riflettendo. C’è un libro fondamentale di Allan Kardec, che potrebbe risponderle: Il cielo e l’inferno e la giustizia divina secondo lo spiritismo… Ma lei crede che lo spirito si manifesti al modo dei fantasmi, andando a tirar le lenzuola della vittima o del carnefice? Occorre chiamarlo… materializzarlo… renderlo presente. E come vuole che un assassino tenti un esperimento di questo genere?».

      «Già!…».

      Il bottone fu girato. La musica dei loro pensieri tacque, racchiusa nelle due scatole craniche.

      «Dove è stato l’altra


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