L'alcòva d'acciaio: Romanzo vissuto. F. T. Marinetti

L'alcòva d'acciaio: Romanzo vissuto - F. T. Marinetti


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Snella agilissima, ma meno snella, meno agile della mia 74. La strada curva è girata, o meglio presa in giro dalla nostra fusione veloce tlantlantrintrrrrr trrrr. Polverone sferico, blocchi di caldo roteanti. Trombe d’aria sbatacchiate fra le facciate delle case sovraccariche di biancherie roventi alate. Ondeggiare frenetico della mia 74 fra le resistenze dei metalli. Anguillare sulle anguille affettuose delle rotaie.

      Incrociamo delle automobili festive, veri salami-proiettili. A Varazze, urrah! la mia 74 incontra le sue 7 sorelle e torniamo in squadriglia sferzati dai lunghi raggi del tramonto, in una gara pazza di velocità verso Genova e Rapallo.

      Ognuno dei miei 7 compagni auto-mitraglieri pretende che la sua amante blindata sia più veloce della mia. Le 8 donne d’acciaio lanciate gareggiano, gareggiano, gareggiano, precipitando il ritmo dei loro cuori-motori fra i mille ostacoli ganci ombre insidiose, riflessi lunghi e corti, rosse occhiate languide delle bettole e maledette lanterne dei passaggi a livello. Il mare si precipita contro le scogliere sotto la strada, infrangendo con fracasso ogni barriera. Folla urlante di onde-faccie schiumose di sudore rosso per vedere, per vedere la corsa delle blindate impazzite. Entrando in Genova la mia 74 è in testa. Ritmo perfetto, dominatore del cuore-motore obbedientissimo a me. Rallentiamo sotto la curiosità affannosa e ronzante delle lune elettriche. Ma fuori verso Nervi dove il mare sventaglia dolorosamente sulla ghiaia la tosse dei suoi risucchi malati, la gara riprende, le agili donne d’acciaio corrono cantando felici d’essere possedute da maschi e di possedere il lunghissimo tortuoso corpo della strada con lesbica virilità.

      La luna piena succosa che si sbuccia dalle nuvole sull’orizzonte marino è il nostro traguardo magnetico.

      Le sette blindate che mi seguono tentano ad ogni curva di sorpassarmi. I miei amici ignorano il segreto della mia superiorità. Ognuno maneggia sapientemente la propria amante, ma non ha raggiunto il grado di fusione perfetta che mi lega alla mia 74. Tutti i calcoli meccanici sono cancellati da questo slancio impetuoso che io imprimo ora con la mia volontà al cuore-motore. Correre, correre, correre, accelerando cento altri acceleratori sconosciuti e misteriosi che mi sono nati sotto i piedi, sotto le dita, sul volante e nella mia fronte. Non sento più la pressione invidiosa delle altre sette macchine dietro di me. Sono distanziate. Ecco gli esuberanti volumi di vegetazione di Camogli e in mezzo a loro in fondo alla strada che strapiomba sul mare la luna, la bella luna di carne tiepida e profumata da infilzare. Stop. Ho vinto la gara.

       GLI EQUIPAGGI DELLA LUNA

       SBARCANO A RAPALLO

       Indice

      Possiamo ormai tutti in squadriglia languidamente rallentare nella grande magia dei profumi notturni, fra le diafane aeree mani lunari che viaggiano nella brezza e supplicano i giardini di bagnarsi nel mare. Quando entriamo nel giardino del Casino delle Delizie, la luna alta armata di tutti i suoi fascini si è già impadronita del golfo meraviglioso.

      Dall’alto cassero di madreperla la Luna ha calato la sua lunga scala nell’acqua intenerita. Subito ha messo in mare i suoi canotti bianchi costruiti con la polpa di favolose noci di cocco. Gli equipaggi della luna vengono a terra alzando in cadenza fuor dalle onde i lunghi remi d’argento, perchè ne grondino perle innamorate e sguardi spiralici di bionde bionde che quando dormono guardano ancora coi loro denti di perle. Clic cloc gott gott plic ploc sotto la prua. Languida sonnolenza di acque tessute di corpi in fuga, volubili, che si sciogliono sotto la carezza delle pale scivolanti.

      I rematori hanno il corpo nudo plasmato d’argento vivo, ma tornito, senza frange, intriso di luce intensa che non abbaglia, anzi seduce gli sguardi. I loro visi sono mandorle d’argento, e vi scorrono sopra gli smeraldi degli occhi che guardano e si celano sotto alghe verdi.

      Quando a braccia tese fanno leva sulle pale affondate, i rematori rovesciano le facce bianche sotto una doccia di latte immateriale. Bevono un sorso lungo poi rapidamente insieme si leccano le labbra colla lingua di rubino acceso, serpentello di fuoco sull’argento del viso.

      Un’immensa dolcezza preme sulla montagna boscosa che digradando scende sino agli ultimi coni circonflessi di verdura di Portofino, vasca d’angeli. «Venite giù, venite giù, Monti, rocce, terrazze e giardini; nell’acqua tenera abbandonatevi!»

      Nell’estasi dilagante, gli equipaggi della Luna intonano un canto grave, pieno di serena malinconia che sale sale sale allargandosi, si ferma lentamente, ricade estenuato. Ma con scatto improvviso, eccolo di nuovo in alto su quella nuvola di tiepida neve abbagliata. La voce trema in un do bianco prolungato con tale soavità da rapire nel sogno i giardini coricati sul mare e soffocare alla gola gli alberi svegliati in una straziante voluttà di piangere. I lunghi canotti della Luna hanno ora tutti i remi alzati, le pale grondanti di perle, ad aspettare che il canto solenne ricada finalmente giù dalle troppo fredde nuvole nel grembo carnale del golfo.

      Perversamente il Casino delle Delizie protende le terrazze a scaglioni, le balaustre curve appassionate, gli aloes infilzanti, le rose suicide alle ringhiere e le vetrate spalmate di stelle e levigate dai pianti del mare. Frusciaaare, schiumaaare, tubaaare delle onde colombe sulle tombe rapite ai cimiteri e come culle rimorchiaaate dai profumi del maaare.

      Il Casino delle Delizie offre una magica festa ai suoi invitati. Sotto le quercie e i pini ombrelliferi una orchestrina di nervi e fibre, tremolanti archetti di pudore, clarini di mandre sognate, tamburelli-cuori rapiti al petto delle bambine, chiama gli usignoli a spasso nei dintorni, perchè le armonie non siano troppo flebili.

      Ed ecco gli usignoli saltellare fuori dai piccoli tunnel fronzuti e inoculare l’adamantino sangue del loro canto nelle ramificate arterie del silenzio, sotto le palme che spandono l’anima sognante del Nilo. Giungono i primi invitati: ufficiali e soldati mutilati. Il loro incedere ha un ritmo sincopato sulla ghiaia scricchiolante dei viali. Scatti obliqui e cadenze rotte che scuotono l’estasi generale.

      Ma sono bene accolti, e piovono i gorgheggi e le fughe a ventaglio di perle sonore fra un diluvio di profumi.

      Le ombre della notte e le forze della dolcezza lunare non sdegnano, ma avviluppano con mille carezze e moine questi corpi umani preziosi che l’affamatissima battaglia ha rosicchiato.

      Alcuni si affacciano alle terrazze tonde, prue illusorie con alti pennoni e bandiere addormentate. Ben diverse da quelle che aizzavano come mantici il fuoco del sangue nelle risse per l’intervento.

      Altri vanno oscillando su passerelle che ricordano i transatlantici. Ogni mutilato insegue, sembra, col suo movimento troncato il membro rapito che certo non dorme in un cimitero del fronte ma vive, trasfigurato, la vita delle carni immateriali nella scìa della luna. O lassù, nell’elastico sorprendente tessuto delle nuvole.

      I mutilati sono ricevuti dalle Ombre e dai Profumi che stendono amache penose, divani spirituali, cuscini di sospiri.

      Noi soli siamo materiali e pesanti. I nostri applausi di uomini interi stonano coll’imprecisa vellutata cortesia degli usignuoli e delle onde che stendono gementi tappeti d’argento per gli equipaggi della Luna.

      Frusciaaare schiumaaare tubaaare di onde colombe sulle tombe rapite ai cimiteri e come culle rimorchiaaate dai profumi del maaare.

      L’orchestra di nervi e fibre patetiche annuncia l’arrivo scivolante delle dame. Previdente pensiero dei grandi sarti inspirati che hanno fasciato appena di stoffe leggerissime quei mobili corpi femminili, perchè l’aroma della voluttà si spanda in giro inebriando le nari veggenti dei ciechi di guerra.

      Gli usignoli supplicano le dame di danzare. Sono obbediti. E la musica tutta vortici e pennacchi vaporosi rapina i corpi delle donne. I ciechi le guardano a quando a quando poi godono la Luna. Allora le teste rovesciate all’indietro bevono il bianco fuoco d’amore coi loro tragici occhiali neri. Penso ai risucchi di piacere delle piccole rade buie incappucciate di verdura quando bevono la luna.

      Noi facciamo danzare le belle donne ma non le tratteniamo. Anzi imponiamo loro di trascurarci. Tutte a gara sviluppano il flirt semilascivo coi mutilati nelle penombre


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