I demagoghi. Cesare Monteverde
di mortadella, di lingua salata, le quali riponevano involte in carta sottile in quelle medesime tasche nelle quali stavano di frequente splendide doppie di Spagna e lucidissimi rusponi gigliati: mercanti che nei dì destinati agli affari sedevano ai loro banchi a guisa dei moderni commessi, non sognando i fallimenti e gemendo nel vedere la tendenza del movimento progressista che avrebbe, come pur troppo è avvenuto, fatte passare le ricchezze in mano dei forastieri e degli ebrei, e terminato col creare una città nuova e di lusso sulle reliquie della vecchia, e fatto sostituire agli opachi lampioni da olio i moltiplici beccucci del gaz, pullulare i teatri, i luoghi di ameno passeggio, i casini, i ridotti, ecc., piangendo quei buoni tempi di vera dovizia e commerciale onestà che andavano a senso loro a spirare esclamando: «Oh poveri Livornesi! vanità! tutto vanità! Debiti sopra debiti; lusso sopra lusso; negozianti diventati garzoni di bottega, boria molta e quattrini niente!»
Come io diceva di sopra, in occasione della splendida festa di madama Guglielmi, le timonelle erano state fissate fin dal mattino: ed avvegnachè il loro numero fosse ristretto, ogni vetturino si era assunto l'onore di trasportare al festino più d'una famiglia.
Le modiste da oltre una settimana lavoravano a furia, i sarti si affaticavano volentieri inquantochè a quell'epoca erano sicuri di esser pagati dagli avventori non con parole, come sento dire che avvenga oggi, ma con buoni francesconi.
I caffè ed in specie quello Del Greco preparavano i sorbetti, le limonate, i punch, l'acque d'anici, di finocchio e di cedro. Il famoso Bocca di gloria nella sua botteguccia posta ai quattro canti allestiva i cialdoni. Le fanciulle si abbigliavano, le mamme strepitavano nel mettersi le scarpe piuttosto strette ai piedi sessagenari e gonfi per i geloni. I giovinotti si risciacquavano la bocca per togliere l'odore del sigaro, si profumavano i capelli e si radevano la barba laddove oggi son cresciuti gli eleganti baffi. Chi non avea servitore, nè poteva averlo, non si restava da farla da cameriere a sè stesso, preparandosi per la danza, tranquillamente lustrandosi gli scarpini, spazzolandosi i calzoni e la giubba con quella stessa mano che, calzato il guanto color canario di pelle venuto da Napoli, avrebbe poche ore dopo guidato qualche scelta damigella alla contradanza francese.
E qui sappiate, lettori carissimi, che ho detto scelta, e non nobile damigella, inquantochè, siccome vi avvertiva, a quell'epoca non vi era nobiltà livornese, non essendosi voluto per anco cambiare i sacchetti di zecchini d'oro coi segni blasonici.
Il più alto ceto era quello dei ricchi e dei mercanti, i quali nella loro semplicità stavano almeno tranquilli che il sonno che avrebbero preso nel giorno dopo d'una festa da ballo non sarebbe stato interrotto dall'arrivo nelle loro case di quell'uomo poco simpatico chiamato il Cursore, latore di quei fogliettini altrettanto antipatici chiamati volgarmente Precetti, coserelle non fuori d'uso oggidì.
Ma intanto l'ora del festino è sonata, i suonatori si trovano al loro posto. Le carrozze ruotano per la via Ferdinanda. Si sentono lo scoppiettío delle fruste e le bestemmie dei vetturini impazienti ed il fruscío delle scarpe di coloro che, non avendo vettura, si recano alla danza a piedi. Gl'istrumenti dell'orchestra si accordano, e la bella Rosina insieme colla madre trovasi a far gli onori del convito, ricevendo le invitate e gl'invitati.
CAPITOLO III.
Festa da ballo in maschera.
Gli appartamenti della signora Guglielmi sfolgoravano per cento accesi doppieri. Le sale erano magnificamente addobbate; tappeti di soprafino lavoro inglese screziati a mille colori cuoprivano morbidissimi il pavimento; le suppellettili di squisito gusto dimostravano tutto il lusso e la galanteria di una dama francese. Numerosi tavolini da giuoco erano apparecchiati per i militari invalidi, per coloro che amavano più la fortuna che il ballo; in una parola, vi era laggiù tutto il comodo di rovinarsi nella salute e nella borsa. Così vanno le cose quaggiù e così sono andate di secolo in secolo e così andranno fino alla fine del mondo.
Le danze erano cominciate da qualche tempo, e noi, sorpassando alcuni salotti di danzanti, ci arresteremo un momento in una stanza parata di damasco celeste, dove, vicino ad un caminetto sul quale ardono legna odorose, sta un tavolino attorno a cui giuocano la signora Guglielmi, un uffiziale, un finanziere ed una mascherina elegante in dominò bianco sul cui cappuccio vedesi accuratamente cucita una camelia rossa uguale a quella che mirammo nel gabinetto privato di Rosina. Si giuoca di grosso, poichè è carnevale; lasciamoli fare.
—Ventuno a quadri, disse con garbatezza madama Guglielmi guardando senza tirarli a sè i sedici zecchini della partita; sarebbe forse la mia posta?
—Con perdono, madama, esclamò il finanziere; mi duole veramente, ma avendo or or succhiellato l'ultima carta, metto in tavola trentuno a picche.
—Mi rallegro con voi, replicò madama Guglielmi deponendo le sue carte sul tavolo; ho troppa fretta e spesso mi trovo delusa nelle mie speranze: ma adagio, signor finanziere, vi esorto a non cantar vittoria; imperocchè vedo quella mascherina la quale sotto la visiera forse forse riderà di noi, e sta per succhiellare la quarta carta. Aspettiamo la di lei decisione.
—È giusto, disse il signor uffiziale; io non ho punti da mostrare.—
E tutti e tre stavano a guardare il quarto giuocatore, che con tutto il sangue freddo possibile succhiellava la sua ultima carta. Estratta che l'ebbe, senza dir parola schierò sul tappeto le sue carte, mostrando col dito che davano per punto quarantanove a fiori.
—Ah! disse l'uffiziale, il 21 è stato eclissato dal 31, e questo dal 49.—
La mascherina non potè trattenere uno scroscio di risa mentre ritirò il denaro.
Il signor uffiziale prese ciò in mala parte e, dopo alcune partite, essendosi sciolto il giuoco, mentre stavasi per passare alla sala da ballo, fattosi presso a colei dal dominò bianco, gli susurrò all'orecchio:
—Mascherina, ho bisogno di dirvi una parola in quattr'occhi.
—Dove e quando volete, riprese il dominò bianco senza esitazione.
—Subito e nella sala del buffet, se vi piace.
—Volentierissimo.—
Ed entrambi si avviarono al luogo indicato. Giunti peraltro che furono in fondo ad un corridoio solitario, ove appena arrivavano i suoni dell'orchestra, la maschera riprese la parola e, soffermatasi,
—Signor Alfredo, disse, ciò che volete dirmi, potete dirmelo qui.—
Nella voce della mascherina vi era un certo non so che di alterato e di sardonico che non sfuggì al giovine, il quale sollecitamente:
—Alfredo diceste; mi conoscete voi?
—Temete forse di esser conosciuto? rispose la maschera ridendo.
—Io temere? Deggio forse arrossir del mio nome?
—Non credo, ma di qualche fatterello potrebbe pur darsi.
—È questo il secondo insulto che ricevo da voi; il primo per aver riso alle mie parole nel giuoco, l'altro investe la mia condotta e….
—Ci s'intende, avete diritto ad una sodisfazione; or bene, ed io son pronto a darvela: mi spetta la scelta delle armi.
—Sono indifferente.
—Prima per altro conviene che mi domandiate conto dell'esser mio; non potrei essere un plebeo indegno di misurarsi con un nobile paladino?
—Il vostro linguaggio, sebbene ironico, nol dimostra; ma in questo caso potrei far adoprare il bastone da' miei servitori.
—Semprechè io, con vostra buona grazia, avessi la volontà di farmi accarezzare le spalle da gente che puzza di cucina.
—Termine agli scherzi. Ditemi qual è l'arma che sceglierete e prima di tutto l'esser vostro.
—Adagio, adagio, signor mio: quanto all'arma, io sono nemico del sangue; compatitemi, non