Olocausto. Alfredo Oriani

Olocausto - Alfredo Oriani


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senza che egli se n'accorgesse. La volgarità dell'avventura aveva ridestato in lui tutti gl'istinti e le abitudini diffidenti del mestiere, mentre un orgasmo gli cresceva dentro, e per la strada deserta, punteggiata sino lontano dai fanali, l'ombra silenziosa metteva come un mistero.

      —Ma voi chi siete?

      —Sono della casa. Venga.

      La donna fece un passo avanti. Adesso osservò che la sua figura era alta, benchè le spalle le si curvassero troppo facendole tenere la testa bassa: non aveva potuto vederla in viso, ma gli era sembrato di notare un gran naso sottile in quella pallidezza, che il fazzoletto chiudeva come in una cupa cornice. E la sua voce aveva strane intonazioni: egli ne rimaneva perplesso.

      La raggiunse.

      —Dove andate?

      —A casa.

      Una domanda bizzarra gli salì alle labbra, perchè sentiva confusamente che in quell'incontro era qualche cosa d'insolito, che lo rendeva diverso dagli altri di tutte le sere lungo certe strade, quando la gente comincia a diradarsi.

      —Perchè avete fermato me? State lontano?

      —Non molto: venga.

      —La ragazza è bella?

      —Sì.

      Egli tornava a dubitare: questa volta si pose davanti alla donna:

      —Mi condurrete invece da qualche brutta sgualdrina: per solito accade così. Se la ragazza fosse bella, come dite, non cerchereste per lei qualcuno nella strada, a quest'ora.

      —È la prima volta.

      —Via!

      L'altra parve non badasse all'accento di quell'esclamazione.

      —Lei è forestiero, ecco perchè.

      —Come lo sapete?

      —Me ne sono subito accorta al modo come ella andava guardando per la strada: poi alla pronunzia. Lei deve essere bolognese.

      —Quasi,—ribattè sorridendo:

      —Ebbene, andiamo.

      Passarono il ponte Santa Trinità, ma appena nell'altro Lungarno egli si riaccostò vivamente alla donna. Non poteva capire perchè volesse precederlo invece di accompagnarsi con lui per vantare al solito le bellezze della ragazza. L'aria misteriosa della donna, le sue parole, il suo accento soprattutto, lo facevano dubitare di qualche cosa, che non sapeva indovinare.

      —Perchè andate così in fretta? Io ho tempo, non parto che a mezzanotte.

       Parliamo.

      —Che cosa vuole?—chiese umilmente.

      —È proprio la prima volta?—egli ridimandò colla stessa intonazione sardonica.

      —Ella non lo crede: ho capito. Andavo innanzi io perchè potremmo incontrare qualcuno che mi conosca. Veda: nella nostra casa sono tutte persone per bene; bisognerebbe che nessuno si accorgesse della sua visita, anche per la povera Tina.

      —Si chiama Tina?

      —Sì: mi permetta di andare innanzi, mi fermerò in faccia all'uscio, lo lascerò aperto ed ella salirà. Solamente la prego di non fare rumore, siamo povera gente.

      La strada era anche più deserta, non incontrarono che un gruppo di operai uscenti da una bettola: qualcuno di essi parve sospettare di quei due, che si pedinavano alla distanza appena di dieci passi, e allora egli si rattenne per riaccendere il sigaro. Le ultime spiegazioni della donna, quantunque così oscure, lo avevano mutato. La sua giovinezza non ancora abbastanza corrotta si ricordò confusamente di drammi visti o letti, nei quali una vera miseria travolgeva alla catastrofe altre donne ed altri uomini senza che ne avessero colpa; ed era un mistero antico, un modo continuo della vita, al quale si assiste sempre nella stessa impossibilità di esercitarvi una qualunque influenza. Ma se ne resta scontenti, anche quando si evitano i contraccolpi del danno; talora invece se ne profitta, e dapprima se ne ride, poi non molto tardi si finisce col provarne un vago rimorso.

      Però questo non era in lui che un ondeggiamento oscuro, mentre sotto il pastrano il caldo gli cresceva con quel passo più sollecito e nel sangue giovane gli correvano nuovi fremiti. Fumava gittando in alto le boccate del fumo.

      Svoltarono per un vicolo stretto e tortuoso: poco dopo ella si fermò ad una casetta.

      —Vada piano, mi raccomando, non accenda fiammiferi,—gli disse dietro l'uscio appena fu entrato.

      Le scale erano anguste e brevi: egli ne contò sei rami, poi all'ultimo pianerottolo la donna sospinse una porta, rinchiuse, ed accese un zolfanello. La stanzetta apparve nuda. Era la cucina, a giudicare dal camino largo e basso, ma non vi rimaneva che un tavolo nel mezzo, un canapè sgangherato in una parete, e un altro mobile indefinibile, una specie di canterano, dentro al quale stavano forse le ultime stoviglie.

      Egli osservò subito che tutte le sedie erano spagliate.

      —Si accomodi,—disse la donna a bassa voce, quasi tremando.

      Ma egli restava nel mezzo, impacciato.

      Quella miseria lo agghiacciava. La stanza non era sucida, anzi ai muri vi si vedeva ancora una carta chiara, a fiorellini oscuri, che le avrebbe data un'aria di lindura; ma le tende mancavano, e così vuota pareva anche più grande. Evidentemente si trattava di una di quelle miserie cittadine, pulite e guardinghe, che si nascondono lungamente, arrivando nel silenzio di tutti gli abbandoni alle più inverosimili estremità. Sulla tavola, dentro un candeliere di ottone dal piede slabbrato, bruciava una mezza candela sottile di stearica accanto ad un bicchiere d'acqua; il secchio in ferro bianco era rimasto sul focolare.

      La donna si trasse di testa il fazzoletto.

      Adesso appariva rossa, ma di un rossore fugace e violento. Aveva infatti quel gran naso, che a lui era parso di notare nella strada: era secca e scarna, colle guance infossate perchè le mancavano molti denti, gli occhi chiari e luminosi. Il suo aspetto non era senza una certa signorilità; aveva gettato con gesto nervoso il fazzoletto sulla spalliera del canapè, poi era tornata addietro per assicurarsi di avere ben chiusa la porta del pianerottolo.

      Disse:

      —Scusi, mi pare di averle già confessato che siamo povera gente: si accomodi,… ecco la sedia migliore,—aggiunse con un sorriso stentato:—se non fosse così, non si farebbero certe cose.

      —Ebbene, dov'è la ragazza?—l'altro chiese impaziente per sottrarsi al senso penoso, che gli veniva da tutti quei particolari.

      —Vado.

      Ma non andava.

      Egli si era sbottonato il pastrano sedendosi al tavolo, e guardava il bicchiere d'acqua; la donna se ne accorse e lo portò sul camino.

      —Lei non parte che a mezzanotte per Bologna?—domandò ancora; ma pareva parlare solamente per guadagnare tempo.

      —Sì: ma che fate qui? Perchè non avvisate la ragazza?

      —Vado.

      Una nube le oscurò la fronte, ed ella vi passò una mano tremante: l'altro invece aveva abbassato la testa per guardare l'orologio.

      Poco dopo intese un lungo guaito infantile dal pianerottolo, sul quale dava senza dubbio un altro appartamento. Era un pianto di creaturina spaventata e disperata, che scoppiava in impeti violenti come se qualcuno tentasse di soffocarle tratto tratto i singhiozzi. Egli si alzò, malcontento di essere capitato in una simile casa, mentre aveva pranzato così bene e gli sarebbe stato facile procurarsi altrove qualche distrazione veramente piacevole.

      Ma la porta si aperse.

      —Che cosa è?—egli proruppe di malumore, vedendo ricomparire quella donna sola:—Vi sono anche dei bambini, che piangono, in questa casa? Non udite?

      —Pur troppo, signore; è la bambinella della signora Veronica. Poverina! è ammalata di scrofola, e adesso il


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