Olocausto. Alfredo Oriani

Olocausto - Alfredo Oriani


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ripetè lo stesso sorriso.

      —Anche quella madre è senza mezzi: dovrà forse vedersela morire innanzi così.

      Ma la bambina si quietò.

      Egli si era rimesso il cappello, quindi la donna temette che volesse andarsene.

      —Vuole che l'aiuti a cavarsi il pastrano? A momenti Tina verrà: abbia un po' di pazienza.

      Egli invece se lo trasse da solo con atto impaziente, e l'altra rientrò ancora da quella stessa porta in una camera buia. Probabilmente la ragazza era là.

      Passarono altri cinque minuti. Egli non sapeva più che pensare nella stranezza di un tale caso, che gli aveva già turbato quel benessere dopo il pranzo, traendolo con una imprevedibile novità di sensazioni ad una confusa tristezza. Nato e vissuto troppo lungamente vicino alla miseria per non riconoscerla ovunque, al primo sguardo, non aveva più per essa che la ripugnanza di coloro riusciti finalmente a farsi strada più in alto. Anzi la recente agiatezza gli metteva nel legittimo orgoglio della vittoria un profondo disprezzo pei poveri incapaci di reagire contro la propria condizione sino a trionfarne in un modo o nell'altro. Perchè restare povero? Gli pareva che, volendo, si potesse sempre arrivare ad uno stato tollerabile.

      —Adesso,—pensava,—preparano la scena. Eppure vi è qualche cosa di ben triste nel volto di quella donna non ancora vecchia! Chi è? chi sarà la ragazza? Quella donna non nacque così come si trova ora, ma nelle grandi città i casi e gl'inganni sono talmente complicati che bisogna aspettarsi a tutto. Se tenteranno una commedia me ne accorgerò.

      La porta si riaperse: riapparve quella donna traendone per mano un'altra, che tenea la testa anche più bassa. Egli scattò dalla sedia.

      La ragazza indossava una vecchia giacchetta a maniche larghe e rigonfie verso le spalle, con grandi risvolti, che avrebbero dovuto scoprirle il collo e la sommità del seno se non avesse tenuto il volto così basso; una gonna corta e miserabile le cadeva su due scarpe vecchie, ma i capelli castani, folti, scarduffati, le si alzavano come in nuvola sulla fronte bianca di un candore impressionante. S'indovinava la sua emozione dal tremito del braccio, che stringeva febbrilmente la mano dell'altra donna.

      Questa si fermò, le diede una scossa liberandosi, e tornò indietro in quella camera buia senza parlare.

      La porta si chiuse quasi violentemente.

      La ragazza alzò la faccia.

      Alla fiammella tremula della candela egli vide sotto quella fronte troppo bianca due occhi di un cilestro pallido, e una bocca piccola come stirata da uno spasimo nervoso; però il volto bello, di una delicatezza malaticcia, era fresco malgrado i cerchi bluastri, che rendevano più vivo lo splendore dello sguardo.

      La giacchetta mal chiusa scopriva sotto il collo una bianchezza.

      Egli non sapeva come incominciare.

      —Accomodatevi qui, vicino a me.

      L'altra ubbidì piegando nuovamente la testa.

      Non poteva trattarsi di commedia: il volto della ragazza era così bello e così triste che altri meno giovani di lui se ne sarebbero egualmente commossi; e nulla in lei, dall'aspetto o dall'atteggiamento, tradiva una intenzione seduttrice, quel sottile, continuo inganno femminile, che non cessa mai, nemmeno nelle crisi più profonde della passione. Ma una dolcezza emanava dalla sua figura così ripiegata sulla seggiola, mentre dietro la nuca le si arruffava una quantità di ricciolini, che il soffio più insensibile avrebbe scomposto. Teneva le spalle un po' arcate e sotto le pieghe di quella giacchetta male abbottonata, dalle costure logore, il suo corpicino primaverile appariva in una forma indecisa.

      Egli le guardò le mani sottili, distese sulle ginocchia con quella compostezza delle fanciulle quando seggono in chiesa.

      —Ti chiami Tina?—incominciò prendendole una mano.

      —Sì.

      —Me lo ha detto quella donna: chi è?

      —Mia madre.

      E alzò la faccia: allora egli credette di capire che quegli occhi avevano pianto.

      —Tua madre,—ripetè:—ma scusa, quanti anni hai?

      Interrogava così a caso, tanto per parlare.

      —Non ancora diciassette anni.

      —Ti chiami Tina: hai fratelli?

      —No.

      —Il babbo?

      —No.

      —Solo la mamma?

      —La mamma.

      —E ti…

      Ma non finì: adesso era lui, che sentiva un impeto quasi di collera salire dal sangue, però si trattenne guardandola fisamente. La faccia della fanciulla si era irrigidita in un pallore di marmo, e dietro i denti l'ombra della sua bocca socchiusa pareva palpitare.

      Poi appoggiò un gomito sopra la tavola e la fronte sulla mano.

      —Sei bella davvero!—esclamò improvvisamente.

      Ma siccome l'altra taceva, proseguì:

      —Hai detto la verità. Si vede subito che hai sedici anni, non puoi averne altri. Ti chiami Tina? È un bel nome, nel mio paese non conosco nessuna ragazza che si chiami così. È un nome fiorentino?

      —Sì.

      —Ma tu farai pure qualche cosa? Come vivete in questa casa?

      —La mamma è stata ammalata tutto l'inverno, io andavo da una bustaia, ma ho dovuto smettere per curare la mamma.

      —Il babbo?

      —Non l'ho mai conosciuto.

      —Ma la mamma che cosa faceva prima di ammalarsi?

      —Andava in due o tre case a prestare mezzo servizio per non lasciare me.

      —E prima?

      —È stata quasi ricca, poi vennero le disgrazie: adesso non può fare più nulla, è troppo debole.

      —Dovresti fare tu quei mezzi servizi, insomma la mezza serva invece di lei.

      —Me non prenderebbero, sono troppo giovane.

      —Come serva forse, ma per bambini.

      Parlava duro, da uomo d'affari, colla precisione e la rapidità del colpo d'occhio nel mestiere.

      —Dovrei abbandonare la mamma.

      —E allora?…

      Le teneva sempre quella mano fra le proprie, senza trarne una vibrazione. La fanciulla aveva risposto esattamente a quella specie d'interrogatorio, ma il suo viso rimaneva sempre immobile, nella stessa rigidezza lapidea, dentro la quale gli occhi brillavano come in una lontananza di notte azzurra.

      —Non mi hai ancora guardato,—egli ricominciò dopo una pausa, accarezzandole la mano:—capisco che io non ti posso interessare, perchè non mi conosci. Hai l'amante?

      La fanciulla titubò.

      —No.

      —Davvero, Tina? Mi pare difficile: che cosa fai dunque tutto il giorno?

      —In due mesi sarò uscita di casa due volte, per un momento.

      —Ma bisogna pur vivere.

      —Abbiamo venduto a poco a poco tutto quello che avevamo.

      —Nessuno vi ha aiutate?

      —In principio sì, adesso più.

      —Pare impossibile che si possa arrivare a questo: però qualche idea l'avrai.

      Questa volta ella si strinse nelle spalle, e un sorriso dolente le ricomparve sulla bocca arida, parve cercare qualche cosa sulla tavola. L'altro indovinò.


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