Olocausto. Alfredo Oriani

Olocausto - Alfredo Oriani


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alzò per porgerglielo, la fanciulla lo respinse.

      —Mi farebbe male.

      —L'acqua! Perchè?

      —Anche oggi ho voluto berne e dopo l'ho rigettata.

      —Che cosa ti senti?

      —Nulla.

      —Avrai mangiato qualche cosa d'indigesto: che cosa hai mangiato?

      —Nulla.

      —Nulla, che cosa? Si mangia pure: da quando hai mangiato?

      —Ieri mattina.

      —E dopo?

      Non rispose. L'altro si alzò nervosamente dinanzi a questa fanciulla, che lo dominava colla propria indifferenza, parlando a monosillabi come dentro a un sogno. Non pareva accorgersi di essere sola con lui in quella camera, sebbene fossero bastati pochi minuti per farle confessare tutta la vita.

      —Chiama tua madre perchè vada fuori a comprare quello che vuoi, pago io. Che cosa ti piace? A quest'ora le botteghe sono ancora aperte.

      —Adesso no, non potrei mangiare.

      —Ma nemmeno lei, tua madre, ha mangiato?

      —Più tardi, più tardi,—ella concluse stringendo le palpebre per frenare le lagrime, che le ricominciavano, e rialzò la testa con atto quasi violento. Erano gli ultimi guizzi, forse le ultime resistenze della sua volontà, mentre un'improvvisa paura le gelava il sangue, spegnendole quella luce lontana negli occhi.

      Avevano già parlato troppo: a che scopo? Se ne accorgevano entrambi. Sullo stoppino della candela una larga bracia lasciava salire un tremulo filo di fumo turchiniccio: nella stanza l'aria pareva diventata fredda.

      Il loro silenzio si allungava sotto la pressione di uno sforzo sempre più greve. Egli la guardò fisso facendola trasalire come ad una puntura: il seno le ansava, e sul pallore marmoreo della faccia parve ondeggiarle un brivido luminoso. Si sentiva sempre la mano stretta fra le sue con una violenza quasi dolorosa, mentre egli si agitava sulla scranna col volto mutato da una nuova fisonomia. Improvvisamente, colla testa pesante per quel digiuno di quasi due giorni, la fanciulla non seppe più pensare, come sotto una di quelle sensazioni di sonno così soverchianti nei bambini; un freddo le stringeva lo stomaco e un torpore le saliva simile ad un'ombra sino agli occhi. Poi le sembrò di vedere la luce della candela avvampare in un incendio, che subito si spegnesse.

      Egli le aveva messo una mano sul collo scendendo ad accarezzarlo sotto il bavero della giacca, e col volto quasi sul volto glielo bruciava coll'alito.

      —Dammi un bacio.

      Ella glielo diede.

      —Vieni,—proruppe con voce sorda, traendosela sulle ginocchia e perdendosele nel viso, nel collo.—La mamma te lo avrà detto; sei contenta, non è vero? Lo sai che sei bella? Dammi un altro bacio: sì, sei bella, il tuo aspetto è un incanto!—esclamò finendo colla mano convulsa di sbottonarle la giacca: ma si arrestò.

      —Ah! non hai nemmeno la camicia, hai solo un corsetto.

      Ella si rannicchiò dolorosamente ascoltando come una chiamata i guaiti della bambina, che ricominciava a piangere. Forse la creaturina si torceva fra le braccia della madre secondo il solito, finchè vinta questa pure da tale inutile tortura l'abbandonava o veniva dalle vicine a cercare aiuto. Adesso il pianto continuo, lento, pareva non dovesse cessare più.

      La fanciulla ne tremava.

      Poi un dolore acuto alla mammella sinistra, troppo stretta da una mano troppo pesante, le fece gettare un urlo, mentre l'altro abbracciandola subitamente alle reni la sollevava dalla sedia e col leggiero, grazioso corpo sul petto cadeva attraverso il canapè.

      Ella si divincolò cogli occhi sbarrati, i denti stretti, così violentemente che dalle sue ginocchia scivolò quasi per terra: la pelle le bruciava.

      —Eh! via,—gridò l'altro riafferrandola ai fianchi.

      Ma essa lo guardava col petto nudo, il volto teso verso il suo nello sforzo di una parola suprema, che ne uscì come una fiamma.

      —Sono vergine!

      Poi le caddero le braccia, e rimase davanti a lui colla testa bassa, come un gran fiore falciato a mezzo. Egli stava sul canapè senza capire, colle ginocchia aperte e il volto smorto di un pallore, che gli si faceva più bianco intorno agli occhi.

      E quel pianto della bambina seguitava sempre.

      Con gesto freddoloso la fanciulla si restrinse i risvolti della giacca sul petto nudo senza osare di scostarsi. Perchè aveva fatto così? La mamma aveva udito? Ma una crispazione dello stomaco la fece ancora traballare piegandole il busto; l'altro la sostenne con una mano.

      Quindi le prese fra le palme il volto per guardarlo un'ultima volta:

      —Ti credo, ma tua madre è infame. Prendi.

      Trasse dal portafogli quattro scudi.

      —Fammi lume, che me ne vada subito: potrei pentirmi.

      Ella prese la candela dal tavolo, l'altro era già all'uscio.

      —Salvati se puoi,—le disse voltandosi nell'uscire.

      Quando Tina tornò nella cucina fu sorpresa di non trovarvi la mamma; i quattro scudi erano ancora sulla tavola, ma la porta della camera si riaperse tosto.

      Nessuna dello due trovò una parola: la mamma si accostò alla tavola, prese le quattro carte, esaminandole, senza che dal volto le trasparisse alcuna emozione.

      —Oh! mamma, non potevo!—esclamò finalmente la fanciulla, gettandole le braccia al collo in uno scoppio di pianto senza lagrime.

      L'altra l'accarezzava sulla testa.

      —Calmati, Tina, hai fame? Adesso possiamo mangiare.

      —No, no.

      Ma quelle carezze la calmavano. Finì di abbottonarsi la giacca, si strinse la gonna sui fianchi perchè sentiva freddo e un gran bruciore di sete.

      —Che cosa vuoi? dimmelo e vado fuori a prenderlo.

      —Non ho fame, piglia tu quello che vuoi.

      E le porse il fazzoletto nero.

      —Non sei in collera?

      —No, figlia mia. Lo so, è triste, per adesso non ci pensiamo. Dimmi piuttosto: vuoi che ti porti una costoletta cogli spinacci? Al Pavone è ancora aperto certamente: dammi la boccia del vino; ti occorre qualche cosa di caldo?

      —Ma tu dunque?

      —Di me non ti preoccupare.

      La mamma aprì quel mobile strano, ne cavò un tovagliolo, una boccia di vetro bianco dal ventre grosso.

      —Ti porterò degli aranci: quelli ti piacciono.

      —Sì, piacciono anche a Bettina: comprale due o tre soldi di cioccolatini, andrò io a portarglieli. Non odi come dura a piangere? La signora Veronica sarà ancora alzata.

      —Avrà udito quel signore andarsene.

      —Era ben brutto, sai,—le sfuggì con un gesto di ripugnanza.

      —No, t'inganni; era una persona per bene. Non è facile trattare come lui.

      La fanciulla ridivenne pensierosa: aveva temuto un rabbuffo e quella condiscendenza le dava adesso una nuova emozione.

      —Vado, sì.

      —Porta teco il lume, lo lascerai in fondo alle scale.

      —No, quel signore non ha chiusa la porta perchè non ne ho udito il tonfo. Giù al primo piano gli Arrighi, che sono sempre desti, se ne saranno accorti.

      Questa preoccupazione cresceva in loro di minuto in minuto: per vincerla Tina spinse l'altra verso l'uscio, ma


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