Saving Grace. Pamela Fagan Hutchins
intorno e facendo combaciare le punte con la precisione militare che amavo. Nick canticchiava sottovoce, dondolando la testa. Honky-tonk Women dei Rolling Stones.
“Mi sa che mi piaci più a Shreveport che a Dallas,” dissi.
“Grazie, credo. E a me piace vederti felice. Immagino sia stato un anno duro per te, avendo perso i tuoi genitori e tutto quanto. Un brindisi a questo sorriso,” disse, allungando la sua bottiglia di birra verso di me.
Il brindisi mi aveva quasi fatto fermare il cuore. Ci aveva preso sul fatto che era stata dura, ma preferivo che l’argomento rimanesse sotterrato come i miei genitori. Brindai con lui, ma non riuscii a guardarlo negli occhi mentre lo facevo. “Grazie, Nick, davvero.”
“Vuoi giocare a biliardo?” chiese.
“Perché no.”
Ero su di giri: la ragazza del primo anno che esce con il capitano della squadra di baseball. Entrambi amavamo la musica, così parlammo di generi musicali, band – la sua vecchia band, Stingray, e “vere” band –, il mio corso di musica alla Baylor, e di MDMA, o Mania Del Musicista Arrogante. Davanti ad un susseguirsi di birre, ci scambiammo aneddoti sugli anni del liceo, e mi raccontò di essersi una volta occupato di una passerotta malata.
“Una passerotta malata?” chiesi. “Sicuro siano affari miei? Palla otto in buca.” Colpa mia.
Riprese le palle dalle varie buche e le riposizionò nel triangolo, mentre io strofinavo il gesso blu sulla punta della mia stecca e soffiavo via la polvere in eccesso. “Sei un po’ di strette vedute. La passerotta è un uccello, Katie.”
Ripensai a come aveva usato il mio vero nome per una volta, e a come mi aveva fatto stare bene.
“Stavo surfando, e trovai una passerotta che non riusciva a volare. L’ho portata a casa con me e me ne sono preso cura fino a che non è stata ora di liberarla.”
“Oh, mamma mia! Puzzava molto? Ti ha beccato? Scommetto che tua madre fosse contentissima!” Parlavo a vanvera, un susseguirsi di esclamazioni. Che imbarazzo. Sembravo una ragazzina viziata sotto acidi. “Era calma, inizialmente era sotto choc, ma col passare dei giorni si agitava sempre di più. Avevo quattordici anni e mia madre era solo felice che non stessi in camera mia a prendermi cura di una vera passerotta, quindi le stava bene. Iniziò a puzzare davvero tanto dopo alcuni giorni, però.”
Aprii. Le palle schioccarono e rimbalzarono in tutte le direzioni, prima che una piena ruzzolasse dentro una buca laterale. “Piene,” dissi. “Quindi, tua madre ti aveva già beccato ad avere a che fare con una passerotta, eh?”
“Ehm, non ho detto questo...” disse, balbettando fino a tacere.
Ero più innamorata che mai.
Damn, I Wish I Was Your Lover stava passando in sottofondo. Non sentivo quella canzone da anni. Mi fece pensare. Per mesi, avevo combattuto l’impulso di saltargli al collo e stringerlo fra le braccia, consapevole del fatto che la maggior parte dei colleghi l’avrebbe giudicato inappropriato sul luogo di lavoro. Una mancanza loro, secondo me. Misi gli occhi sulla grande terrazza fuori dal bar e pensai che, se fossi riuscita a portare Nick là fuori, avrei finalmente potuto farlo, lontana da occhi indiscreti.
Credevo di avere delle buone possibilità di riuscita, fino a che un collega non entrò. Tim era un consulente dello studio. “Consulente” significava che era troppo vecchio per essere chiamato “associato”, ma che non era un mago degli affari. In più, teneva i pantaloni almeno due centimetri più in alto del dovuto. Lo studio non l’avrebbe mai promosso a socio. Nick ed io ci guardammo negli occhi. Fino ad ora, eravamo stati due radio ad onda corta stazionate sullo stesso canale, perfettamente sintonizzate. Ma adesso la sintonia si era trasformata in interferenza e il suo sguardo si è offuscato. Si era irrigidito e, piano piano, si era allontanato.
Fece un cenno a Tim. “Ehi, Tim, siamo qua.”
Tim ci salutò da lontano e attraversò il bar fumoso. Tutto si stava muovendo a rallentatore nel suo avvicinarsi, pesante passo dopo pesante passo. I suoi piedi echeggiavano ogni volta che colpivano il pavimento, risuonando no… no… no… O forse lo stavo dicendo io a voce alta. Non ne ero sicura, non che facesse alcuna differenza.
“Ehi, Tim, che bello. Prendi una birra, giochiamo a biliardo.”
Oh, ti prego non dirmi che Nick ha appena invitato Tim a stare qui con noi. Avrebbe potuto rifilargli un “ehi come stai divertiti io stavo andando via”, o qualsiasi altra cosa, ma no, ha chiesto a Tim di unirsi a noi.
Tim e Nick mi guardarono, aspettando la mia conferma.
Mi rifugiai in una breve fantasia, dove eseguivo un impeccabile calcio volante, colpendo Tim nella pancia e facendolo cadere per terra, dove rimaneva con i conati di vomito. A cosa erano serviti i tredici anni che mio padre mi aveva costretta a fare karate, se non potevo usarlo in momenti come questi? Ogni donna dovrebbe sapersi difendere, Katie mi diceva mio padre, mentre mi accompagnava al dojo.
Forse questa non era tecnicamente autodifesa, ma l’arrivo di Tim aveva infranto le mie speranze di saltare addosso a Nick, e tutto quello che ne sarebbe seguito. Non era forse un motivo valido?
Scacciai il pensiero. “In realtà, Tim, perché non prendi il mio posto? Sono stata tutta la settimana in aula, sono sfinita. Iniziamo presto domani. È l’ultimo giorno, il gran finale dell’équipe Hailey & Hart.” E passai a Tim la mia stecca.
Tim apprezzò l’idea. Chiaramente le donne lo spaventavano. Se mi aspettavo che Nick si opponesse, non lo fece. Riprese il teatrino “Katie chi?” che faceva fuori dall’ufficio.
Mi era toccato un “Buonanotte,” senza aggiungere né Elena né Katie.
Presi un’altra Amstel Light al bar per il tragitto fino alla mia stanza.
Due
Hotel Eldorado, Shreveport, Louisiana
14 agosto 2012
Quindici minuti dopo, avevo tirato fuori una bottiglia di vino dal minibar. Presi in mano il mio iPhone con l’intento di mandare un messaggio. Scrivere da ubriachi, mai una buona idea. Magari ci fosse stato un poliziotto lì ad arrestarmi: mi avrebbe salvata da quello che stava per succedere.
A Nick: “Mi hai scaricata per Tim. Mi sento sola.” A quel punto avrei anche potuto aggiungere, “Con amore, la tua pazza stalker.”
Nessuna risposta. Aspettai cinque minuti, mentre finivo un bicchiere di vino. Riempii di nuovo il bicchiere. Rilessi i trecento messaggi di Emily che chiedeva dove fossi, ai quali la mia riposta era stata “Nick!!! Scusami. Ci sentiamo dopo.”
Mandai un altro messaggio a Nick. “Ci sei? Sei ancora con Tim?”
“Ehi,” fu la sua riposta.
Un altro messaggio, pochi secondi dopo: “Dobbiamo parlare.”
Buon segno o cattivo segno, mi chiedevo. “Parlare” è un eufemismo per “non parlare”?
Risposi a Nick: “Ok. Dove, quando?”
“Lunedì, ufficio.”
Un pugno allo stomaco. Forza, Katie, forza. Non farti sfuggire questa occasione. C’è ancora speranza. “Non è giusto. Adesso? Scegli un posto.”
“Cattiva idea. Ho bevuto.”
“Me la caverò. Camera 632.”
Nessuna risposta. Pensa pensa pensa pensa pensa pensa pensa. Non ha detto di no. Non ha detto di sì. Potrei riscrivergli e chiedere una risposta chiara, ma potrebbe essere quella sbagliata. Supponi che sia un sì e ricomponiti, ragazza.
Ispezionai l’austera camera d’hotel, il piumone scadente, ingrigito dal lavaggio continuo in lavatrici industriali, il colore sbiadito delle tende risalente agli anni