Saving Grace. Pamela Fagan Hutchins

Saving Grace - Pamela Fagan Hutchins


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cercai di prepararmi per assumere un comportamento sobrio.

      Niente Nick. Camminavo avanti e indietro. Mi lamentavo. Controllavo i messaggi. E poi, improvvisamente, sapevo che era lì, l’avevo sentito con il mio Nick-radar extrasensoriale.

      Sbirciai dallo spioncino. Sì, era lì, facendo ciò che facevo io, ma dall’altro lato di quel pezzo di legno massiccio. Però non potevo aprire la porta, o avrebbe scoperto che stavo lì in piedi a guardarlo.

      Alzò la mano per bussare. La abbassò. Si girò per andarsene; tornò. Come fosse un artiglio, si passò la mano fra i capelli e chiuse gli occhi.

      Bussò alla porta. Trattenni il respiro mentre dicevo una breve preghiera. “Ti prego Dio, aiutami a non mandare tutto all’aria.” Probabilmente non la preghiera meglio concepita o eseguita già pronunciata. Aprii la porta.

      Nessuno dei due disse nulla. Feci un passo indietro e lui entrò, stringendo un tovagliolo del bar nella sua mano sinistra. Passava invece la mano destra ancora fra i capelli, un tic nervoso che non avevo mai notato prima di questa sera.

      Mi sedetti sul letto. Lui si sedette in una sedia sotto la finestra.

      “Hai detto che dobbiamo parlare,” lo imboccai.

      Si concentrò sul suo tovagliolo stropicciato per un bel po’. Quando alzò lo sguardo, indicò prima lui e poi me e disse, “La mia vita è troppo complicata adesso. Mi dispiace, ma questa cosa non può succedere.”

      Queste non erano le parole che avevo sperato di sentire. Forse erano grossomodo quelle che mi aspettavo di sentire, ma non per questo avevo perso la speranza. La mia faccia andava a fuoco. Conto alla rovescia alla fusione.

      “Con ‘questa cosa’ suppongo tu ti riferisca a una qualche ‘cosa’ fra noi due? Ovviamente non può succedere. Sono una socia dello studio.” Ascoltavo la mia voce come se venisse da lontano. Altezzosa. Distante. “So che a volte sembra che stia flirtando, ma faccio così con tutti, Nick. Non preoccuparti. Non ci sto provando con te.”

      Potevo quasi intravedere il segno sul suo volto allo schiaffo delle mie parole.

      “Ti ho sentita parlare al telefono con Emily quando sei arrivata, oggi pomeriggio.”

      Inquietante. “Di cosa stai parlando?”

      “Sono passato davanti alla tua camera. La porta era socchiusa, Ti ho vista. Ti ho sentita.”

      Protestai, “Come sapevi che ero io?”

      “Riconosco la tua voce. Stavi parlando di me. Ho sentito il mio nome. Mi dispiace di aver origliato, ma non sono riuscito a trattenermi. Mi sono fermato e ho ascoltato.”

      Provai ad interromperlo, ma andò avanti.

      “Hai detto,” e, oh, quanto non avrei voluto sentire ciò che stava per dire, “che non riuscivi a credere quanto fossi attratta da me. Che ti sentivi in colpa perché pensavi più a me che al lavoro o a ciò che è accaduto ai tuoi genitori…” Nick si mangiava le parole, faticava a parlare. “Hai detto ad Emily che non riesci a fare a meno di essere innamorata di me.”

      Oddio. Mamma mia. Il sangue non mi arrivava più alla faccia. Avevo detto quelle cose ad Emily per telefono. Mi aveva chiamata per raccomandarsi che andassi alla conferenza e io avevo portato la conversazione su Nick. Era una cosa così normale che l’avevo dimenticata. Diavolo, così normale che probabilmente lei neanche mi stava ascoltando. Improvvisamente, mi resi conto di quanto ero ubriaca e la stanza iniziò a girare.

      Forzai una risata acuta. “Sì, ho menzionato il tuo nome, ma questo non è ciò che ho detto.”

      “Invece sì,” mi interruppe. “Non sono un idiota. So quello che ho sentito.”

      “Beh, lo stai interpretando male,” insistetti. “Non ti sto addosso, Nick. Per quello che ne so, sei ancora sposato. E lavoriamo insieme. Mi dispiace se ti ho messo a disagio. Proverò a non farlo di nuovo.”

      “Non mi hai messo a disagio.” Si interruppe e passò una terza volta la mano fra i capelli, fissando il tovagliolo di nuovo. C’era scritto qualcosa su quel maledetto coso. “È solo che…” Sospirò, e si fermò.

      “Solo che cosa?”

      Nessuna risposta. Vorrei poter dire che è solo per colpa dell’alcol che esordì con sarcasmo, ma è così.

      “Perché non interpelli il tuo tovagliolo magico per sapere cosa dovresti dire?”

      Si incupì. “Sei stata scortese.”

      Iniziavo a scaldarmi. “Beh, sembra che tu sia venuto qui con il tuo discorso pronto. ‘Rimetti la povera Katie malata d’amore al suo posto’.” Inspirai profondamente e buttai tutto fuori, “Non riesco a credere che tu abbia dovuto annotare cosa dire in un tovagliolo da bar.”

      “Non sono bravo quanto te con le parole, Signora Avvocata. Volevo fare le cose per bene. Non prendermi in giro perché ho preso la cosa seriamente.”

      “Mi dispiace per averti sottoposto a tanto stress.” Allora non mi dispiaceva affatto, e sospetto che il mio tono l’avesse fatto capire. “Per carità, finisci di leggere il tuo tovagliolo.”

      Si alzò in piedi. “Non c’è altro sul mio tovagliolo di cui dobbiamo parlare.”

      Troppo tardi, mi accorsi di quanto mi stavo comportando male. “Nick, mi dispiace. Dimentica ciò che ho detto. Ho bevuto troppo. Merda, bevo troppo ultimamente, e di sicuro ci darò un taglio. Spero che questo non comprometta la nostra amicizia e che possiamo continuare a lavorare normalmente. Sai come sono fatta. Sono troppo diretta e ho la lingua lunga.” Smisi di blaterare inutilmente e lottai per mantenere il contatto visivo con lui.

      I miei pensieri si confondevano. Come avevo fatto a fraintenderlo a tal punto? Avevo sempre creduto che, in fondo, provasse un’attrazione per me — non solamente a livello fisico —come io la provavo per lui. Che se gli avessi dato la giusta opportunità e spinta, mi avrebbe fatto mancare la terra da sotto i piedi e portato nella sua carrozza magica, per vivere felici e contenti.

      Che pensiero ridicolo. Non ero Cenerentola. Ero Glenn Close con il coniglio bollito. E lui Michael Douglas che cercava di scappare.

      Non sapevo come rimediare. Ogni secondo che passava, il suo sguardo era sempre più ostile. Senza rivolgermi un’altra parola, se ne andò furioso, con quel maledetto tovagliolo stropicciato.

      Tre

      Hotel Eldorado, Shreveport, Louisiana

      15 agosto 2012

      Mi svegliai con violenti postumi, tanto colpa dell’umiliazione quanto della Amstel Light e del vino del minibar, e mi ricordai di Nick nella mia camera, e di come mi ero comportata. Era difficile immaginare uno scenario dove fosse andata peggio di così, ma almeno non l’avevo trovato nudo alla mia porta con una rosa fra i denti. Mi sarei alzata e mi sarei rimessa in sesto. Avrei sfoggiato il mio maglioncino verde muschio di Ellen Tracy. Avrei sistemato le cose.

      Ma prima, avrei controllato i messaggi, perché il mio telefono stava esplodendo. A quest’ora del mattino?

      “Dove CAVOLO sei?” Era Emily.

      “?? Mi sto preparando.”

      Una verità un po’ distorta, ma la regola fondamentale degli SMS è di essere concisi, per questo omisi qualche dettaglio.

      “Abbiamo iniziato. Muovi il sedere!”

      Forse non era così presto come pensavo. “Sto arrivando.”

      Beh, farmi bella e riprendermi allo stesso tempo era ormai fuori questione, anche se penso ci sarei riuscita comunque date le circostanze, indipendentemente dalla fretta. Mi rimisi in sesto in conformità con le norme igieniche ed estetiche di base e mi unii alla conferenza di team building, giorno due. Speravo di riuscire a fingere abbastanza bene da ingannare i colleghi.

      Mi fermai davanti alla porta aperta


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