I figli dell'aria. Emilio Salgari
quella dannata casa del signor San… San… Ting… Auff! che nome! Non riuscirò mai a digerirlo, mio caro Fedoro.
– Se dice che ci siamo!…
– Non è la prima volta che ce lo ripete. Che abiti all’inferno questo negoziante di tè?
– Pazienza, Rokoff; poi ci riposeremo.
– Riposeremo dal cinese?
– È mio amico.
– Bella amicizia! Una zucca pelata!…
– Troverai un uomo amabilissimo e gentile.
– Uhm!
– Che sarà orgoglioso di ospitare un tenente della cavalleria russa. Il nostro paese gode oggi molte simpatie qui.
– Eppure i nostri in Manciuria ne hanno commesse di quelle grosse. Ne hanno annegati a centinaia nelle acque dell’Amur.
– Inezie, Rokoff.
– Saranno tali forse per i cinesi: già, son così tanti, che diecimila più o meno non contano.
– Non dire però male dei cinesi quando saremo da Sing-Sing.
– Anzi dirò che sono bella gente – disse il cosacco, ridendo. – Sarò gentile; te lo prometto, Fedoro.
– Allora tutto andrà bene.
– Eccoci – disse in quel mentre il ragazzo.
Fedoro ed il suo compagno erano giunti dinanzi ad una sontuosa dimora, adorna di colonnati coperti di lanterne, di frontoni di marmo, di ghirigori di porcellana, con tetti e soprattetti a punte arcuate sormontati da una vera selva di antenne sostenenti bandiere, draghi e gruppi di gigantesche lampade.
Ondate di luce variopinta si proiettavano sulla folla stipata dinanzi al palazzo, dove bruciavano girandole, bambù crepitanti, fuochi di bengala e detonavano razzi e petardi in gran numero.
– Bella casa! – esclamò il cosacco.
– Principesca – disse Fedoro. – Ciò non mi stupisce, perché si dice che Sing-Sing, col commercio del tè, abbia accumulato milioni su milioni.
Il ragazzo si era slanciato sull’ampia scala marmorea, sul cui pianerottolo si accalcavano numerosi servi vestiti sfarzosamente, con ampie zimarre di nankino fiorito e larghe cinture di seta ricamata in oro. Un momento dopo il gigantesco tam-tam, sospeso sopra la porta, echeggiava con fracasso assordante, annunciando al padrone della splendida dimora una visita importante.
– È per noi che fanno tanto rumore? – chiese Rokoff.
– Sì, rispose Fedoro.
– Avrebbero fatto meglio a risparmiarsi questa musica che sfonda i timpani degli orecchi.
– Rokoff! Tu diventi brontolone – disse Fedoro celiando.
Un cinese, un maggiordomo di certo, obeso come un ippopotamo, tutto vestito di seta rossa a fiori bianchi ed a lune sorridenti, che traballava grottescamente sui suoi zoccoli quadrati dall’alta suola di feltro, s’avanzò verso i due europei e s’inchinò profondamente incrociando le mani sul petto e muovendo graziosamente le dita, salutandoli con un cordiale:
– Tsin!… Tsin!…
– Ecco un uomo che deve mangiare delle grasse galline o per lo meno delle oche – mormorò il cosacco. – Si deve star bene in questa casa.
– Siete voi gli europei che il mio padrone aspetta? – chiese.
– Sì – rispose Fedoro, il quale comprendeva benissimo il cinese. – Io sono Fedoro Siknikoff, rappresentante e comproprietario della casa di esportazione di tè, Siknikoff e Bekukeff di Odessa.
– E l’altro? – chiese il maggiordomo, guardando il cosacco.
– Un mio amico.
– Seguitemi: ho ricevuto ordini a vostro riguardo.
Fedoro mise in mano al monello un tael, somma ragguardevole in Cina dove un operaio, lavorando dall’alba al tramonto, non guadagna più di sessanta centesimi, e seguì il maggiordomo in un superbo vestibolo scintillante di luce per la moltitudine di lanterne di seta che coprivano il soffitto.
Attraversarono in seguito parecchie gallerie, colle pareti coperte di arazzi meravigliosi rappresentanti draghi vomitanti fuoco e gru e cicogne in gran numero; passarono in mezzo a paraventi di seta di tutte le tinte, leggiadramente ricamati ed entrarono finalmente in una stanza illuminata da una gigantesca lanterna coi vetri di madreperla e che spandeva una luce diafana, del più sorprendente effetto.
– Aspettate qui gli ordini del mio padrone – disse il maggiordomo, inchinandosi fino a terra.
Rokoff, ch’era passato di stupore in stupore, s’era fermato sotto la lampada, girando all’intorno uno sguardo attonito.
Quella stanza, quantunque ammobiliata semplicemente, non usando i cinesi mobili pesanti, era così graziosa, da far stupire lo stesso Fedoro, quantunque da lunghi anni avesse percorso il Celeste Impero, visitando tutte le città costiere.
Era un quadrilatero perfetto, col pavimento coperto di piastre di porcellana azzurra che avevano dei dolci riflessi sotto la luce della lampada; colle pareti coperte di quella meravigliosa carta di Tung che invano gli europei hanno cercato di imitare, a fiorami dorati, che parevano ricamati, e col soffitto a quadri pazientemente intagliati.
Le finestre, piccolissime, avevano tende di seta trasparente che coprivano i vetri di talco.
Nel mezzo due letti massicci, bassi, con coperte di seta ricamata e guancialini di sottilissima tela fiorata; negli angoli, invece, leggeri tavoli laccati, scaffali di ebano, sputacchiere e vasi istoriati pieni di peonie fiammeggianti, e sedie di bambù che avevano certe vernici che parevano strati di vetro.
Su tutti i mobili poi, vasetti, vasettini, statuette, palle d’avorio traforate, ninnoli d’ogni specie, di porcellana, di ebano, di osso, di talco, di madreperla, di oro e d’argento, specchi di metallo a rilievi e profumiere.
– Non avrei mai supposto che questi cinesi sfoggiassero tanto lusso nelle loro case – disse Rokoff, dopo essersi guardato attentamente intorno. – Che cosa ne dici, Fedoro?
– Che vedrai ben altre cose – rispose il giovine.
– E il padrone di questa dimora?
– Spero che si farà vedere presto. Noi siamo ospiti che valgono delle centinaia di migliaia di lire ed i cinesi ci tengono al danaro anche…
Un colpo bussato alla porta, gl’interruppe la frase.
Il maggiordomo entrava portando due giganteschi biglietti di carta rossa, lunghi più d’un metro e larghi quasi altrettanto, sui quali si vedevano delle lettere adorne di geroglifici mostruosi e tre figure rappresentanti un fanciullo, un mandarino e un vecchio seduto presso una cicogna, cioè l’emblema della longevità.
Li depose su un tavolo, poi usci senza aver pronunciato una parola.
– Che cosa sono? – chiese il cosacco stupito. – Dei paraventi?
– Dei biglietti di visita – rispose Fedoro, ridendo.
– Eh!… Scherzi? Questi, dei biglietti!… Buon Dio!… che portafogli usano dunque questi cinesi?
– E d’augurio anche; guarda: vi sono dipinte sugli angoli le tre principali felicità ambite dai cinesi: un erede, un impiego pubblico e lunga vita.
– Un erede!… Ma noi non siamo ammogliati, Fedoro.
– Lo diverremo forse un giorno.
– E non sognamo pubblici impieghi, almeno io.
– Accetterai almeno l’augurio di diventare vecchio.
– Ah!… Questi cinesi!…
– Taci! Il maggiordomo torna.
– Con altri biglietti di visita, forse? Fabbricheremo dei superbi paraventi, mio caro amico.
– No, con dei regali, invece. Dopo