I figli dell'aria. Emilio Salgari

I figli dell'aria - Emilio Salgari


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senza voltarsi.

      – L’hanno divorata.

      – Buona digestione!

      – Hai perduto una rara occasione per gustarla.

      – Vi rinuncio volentieri, Fedoro. Hanno accoppato un altro spirito malvagio. Interessante questo dramma! Il palcoscenico è pieno di morti. Che ammazzino poi anche noi? Da questi cinesi ci si può aspettare qualunque sorpresa. Fortunatamente ho la mia rivoltella.

      – Ecco il tè.

      – Finalmente! Mi rimetterò a posto gl’intestini già perfino troppo sconvolti.

      Alcuni valletti erano entrati recando dei vassoi d’argento pieni di chicchere minuscole color del cielo dopo il crepuscolo, delle teiere colme d’acqua calda e dei vasi di porcellana colmi di tè shang-kiang, ossia profumato, essendovi mescolate alle foglioline delle preziose piante, dei fiori d’arancio, dei mo-lè che sono specie di gelsomini, foglie di rosa e di gardenia torrefatte.

      I cinesi non usano mescolarvi latte e per lo più lo bevono senza zucchero. Di rado ci mettono un pizzico di quello rosso.

      Quell’ultima portata segnava la chiusura del banchetto, la quale coincideva anche colla fine della tragedia.

      I convitati, dopo reiterati sforzi, si erano levati coi volti infiammati, gli occhi schizzanti dalle orbite, i ventri gonfi fino al punto di crepare per l’eccessivo mangiare. Qualcuno dovette essere portato dai servi, di peso fino alla sua lettiga.

      Quando Sing vide uscire l’ultimo convitato, si volse verso i due russi, dicendo loro:

      – Deve essere stato un vero tormento per voi, ma voi mi vorrete perdonare se io ho abusato della vostra pazienza. Gli europei non si trovano bene ai nostri pranzi, lo so.

      – Ho assistito ad altri, – disse Fedoro – quindi potevo prendere parte anche al vostro.

      Sing-Sing rimase un momento silenzioso, girando gli sguardi intorno alla sala deserta e silenziosa, poi riprese:

      – E chissà che domani questo luogo non risuoni invece di pianti e di grida. Strano contrasto, dopo tanta allegria!…

      – Sing-Sing, – disse Fedoro – perché dite ciò? Spiegatevi una buona volta; quale pericolo vi minaccia?

      – Siete armati? – chiese il cinese.

      – Voi sapete, che un europeo non osa percorrere di sera le vie di Pechino senza avere almeno una rivoltella.

      – Venite nella mia stanza; là almeno saremo sicuri di non venire ascoltati da altri. Badate però: potreste esporvi anche voi al medesimo pericolo.

      Fedoro guardò Rokoff.

      – Noi aver paura? – disse questi. – Ah! No, non sappiamo ancora che cosa sia. Andiamo, Fedoro; questa inaspettata avventura m’interessa assai.

      LA SOCIETA DELLA «CAMPANA D’ARGENTO»

      Sing-Sing, presa una piccola lanterna, attraversò la sala, poi parecchi corridoi oscuri e si fermò dinanzi ad una porta massiccia laminata in ferro e che aprì facendo scattare una molla segreta, nascosta in mezzo ad alcuni ornamenti di porcellana.

      I due europei si trovarono in una camera assai spaziosa, colle pareti tappezzate di seta bianca trapunta in oro, ammobiliata semplicemente e nello stesso tempo elegantemente, con leggeri tavoli di lacca e madreperla e con scaffali d’ebano intarsiato.

      Nel mezzo v’era il letto del ricco cinese, basso, massiccio, in legno di rosa, con ricche coperte di seta infioccate e collocato proprio sotto una lanterna coi vetri di talco che spandeva una luce scialba, diafana.

      Accanto, su un leggero canterano laccato e filettato d’argento, vi erano due grosse rivoltelle e una corta scimitarra snudata.

      Sing-Sing chiuse la porta, gettò un pizzico di polvere di sandalo su un catino d’argento dove bruciavano pochi pezzi di carbone odoroso, offrì ai due europei due sedie di bambù, quindi fatto il giro della stanza come per accertarsi che non vi fosse nessuno, disse:

      – È qui che da quindici giorni vivo in angosce inenarrabili, quantunque la morte non abbia mai fatto paura ad alcun cinese. Ho fatto mettere delle solide inferriate alle finestre, cambiare tappezzerie e visitare le pareti onde accertarmi che non esistevano passaggi segreti; ho chiuso la mia stanza con una porta che potrebbe resistere anche ad un pezzo d’artiglieria; ho delle armi a portata della mano. Eppure, credete che io mi tenga sicuro? No, perché sento che malgrado tante precauzioni, i bravi della hoè giungeranno egualmente fino a me e che mi colpiranno al cuore.

      – I bravi della hoè! – esclamò Fedoro impallidendo.

      – Della «Campana d’argento» – aggiunse Sing-Sing, con un sospiro.

      – Voi siete affiliato a qualche società segreta?

      – Tutti i cinesi, quantunque l’imperatore abbia emanato ordini rigorosi e colpisca senza pietà i membri delle società segrete, sono ugualmente affiliati a qualche hoè.

      Per noi è una necessità e anche un’abitudine prepotente ed io ho fatto come gli altri e come avevano fatto prima i miei avi. Disgraziatamente una sera, dopo un’orgia e dopo aver fumato parecchie pipate d’oppio, preso chissà da quale strano capriccio, mi sono lasciato sfuggire dei segreti che riguardavano la hoè alla quale sono iscritto. Il governo imperiale non ha osato colpire me, ma ha proceduto senz’altro, con rigore feroce, contro la mia società, torturando e dannando alle galere quanti membri aveva potuto acciuffare. Sono stato un miserabile, ed ora toccherà a me pagare il fallo commesso, colla perdita della vita. Sia maledetto l’oppio che mi ha fatto perdere la ragione.

      – È potente questa società della «Campana d’argento»? – chiese Fedoro, assai preoccupato da quella confessione.

      – Ha migliaia e migliaia di membri, dispersi in tutti gli angoli di Pechino, perfino entro la città interdetta (la città imperiale).

      – E hanno saputo che siete stato voi a tradirla?

      – Purtroppo – rispose il cinese.

      – E vi hanno condannato? – chiese Rokoff.

      – Quindici giorni or sono ho trovato sotto il mio capezzale una carta con il sigillo della società, una campana con due pugnali intrecciati sopra e sotto. Mi si avvertiva che entro due settimane, la mano della hoè, mi avrebbe colpito.

      – Chi aveva messo quella carta? – chiese Fedoro.

      – Lo ignoro, ma certo qualcuno dei miei servi.

      – Ve ne sono alcuni affiliati alla «Campana d’argento»?

      – Sarebbe impossibile saperlo. I membri non si conoscono l’un l’altro ed i soli capi tengono l’elenco dei soci.

      – Sicché non siete sicuro dei vostri servi.

      – Anzi io li temo, e da quando ho ricevuto quella carta, non ne ho fatto entrare più nessuno qui, per paura d’un tradimento.

      – Ignorano il segreto della porta? – chiese Rokoff.

      – Lo spero – rispose Sing-Sing.

      – Quanti giorni sono trascorsi?

      – Quattordici.

      – E questa notte voi dovreste morire – chiese Fedoro.

      – Sì.

      – È già mezzanotte e siete ancora vivo, io credo quindi che la società abbia voluto solamente spaventarvi.

      Sing-Sing crollò, la testa con un gesto di scoraggiamento.

      – L’alba non è ancora sorta – disse poi.

      – Ci siamo noi – disse Rokoff. – Vedremo chi avrà il coraggio di entrare qui.

      – Eppure sento che l’ora della morte si avvicina.

      Rokoff e Fedoro, quantunque coraggiosissimi, provarono un brivido.

      – Bah! – disse poi il primo. – Io credo che nulla accadrà. Signor Sing-Sing,


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