I figli dell'aria. Emilio Salgari

I figli dell'aria - Emilio Salgari


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convitati, che dovevano prima aver subito un lungo digiuno per far più onore alla tavola dell’anfitrione, avevano assalito vigorosamente le prime portate, onde mostrarsi persone bene educate e cercando di rimpinzarsi più che potevano.

      Sing-Sing, d’altronde, era sempre lì per incoraggiarli. Ad ogni portata, rivolgeva a quello ed a questo dei convitati, che cominciavano a rallentare la foga, dicendogli con un amabile sorriso:

      – Mio caro amico, voi non avete ancora mangiato nulla. Per caso trovate che la mia cucina non vi va?

      – No, no – rispondeva l’interpellato, sbuffando. – Sono gonfio come un otre e la vostra cucina è assolutamente deliziosa.

      E subito l’anfitrione di ripicco:

      – So, bene che la mia tavola non saprebbe darvi altro che dei cibi appena possibili, ma non ho di meglio. Fatevi coraggio e gli dei vi benediranno; non sdegnate dunque queste pessime vivande.

      – I vostri cibi sono degni degli dei e quantunque io stia per scoppiare, continuerò tuttavia a far onore al vostro pranzo.

      Tutte frasi convenzionali, che si ripetevano su egual tono ad ogni portata, e che dovevano far sudare freddo ai poveri convitati, parecchi dei quali parevano sul punto di scoppiare davvero.

      Chi faceva poco onore al pasto, senza però offendere Sing-Sing, erano i due europei. Il cosacco specialmente, non abituato a vedere in tavola né topi, né vermi, né cavallette, quantunque il suo stomaco fosse d’una robustezza eccezionale, si era sentito più volte rivoltare gl’intestini e solo per non far dispiacere all’amico che lo teneva d’occhio, era rimasto al suo posto.

      Brontolava incessantemente e faceva certe smorfie e certi occhiacci, da far scoppiare dalle risa Fedoro. Il povero diavolo sudava ben più copiosamente dei convitati cinesi, condannati a rimpinzarsi come oche di Strasburgo, per non mostrarsi maleducati.

      Fortunatamente, fra una portata e l’altra, vi era un intervallo passabilmente lungo, durante il quale tutti potevano liberamente fumare. Dei giovani valletti, messi a disposizione dei convitati, erano pronti a offrire le pipe, già accese prima ancora che venissero richieste.

      Sing-Sing ne dava l’esempio. Quando però fumava, Fedoro che lo osservava di frequente, lo vedeva immergersi come in dolorose meditazioni. Pareva che allora dimenticasse perfino i suoi convitati, non sorrideva più e rimaneva parecchi minuti silenzioso.

      Fingeva di assaporare il delizioso e profumato tabacco che bruciava nella pipa, ma realmente un pensiero tetro lo tormentava perché la sua fronte si annuvolava e nei suoi occhi si vedeva passare un lampo di terrore. Nondimeno, deposta la pipa, riacquistava prontamente il suo buon umore, sorrideva ai convitati e li incoraggiava incessantemente a far onore alla sua «modesta» cucina. Dopo quindici portate, un gran telone che nascondeva l’estremità della sala fu alzato e agli sguardi stupiti del cosacco apparve un palcoscenico, riccamente decorato con baldacchini di seta e di raso, con giganteschi vasi di porcellana pieni di fiori e con panoplie d’armi scintillanti.

      – Fedoro, che cosa avremo ora? – chiese al russo. – Non bastava il banchetto?

      – Avremo una rappresentazione – rispose Fedoro. – Un pranzo senza commedia sarebbe indegno d’un ricco cinese e non si esiterebbe ad accusarlo di spilorceria.

      – È finito il banchetto?

      – Siamo appena alla metà.

      – Per le steppe del Don! – esclamò Rokoff, con spavento. – Hanno il coraggio di mangiare ancora? Non vedete che sono tanto pieni da correre il pericolo di scoppiare? Hanno perfino gli occhi schizzanti dalle orbite!

      – Troveranno modo di fare stare qualche cosa d’altro nel loro stomaco.

      – E su quel teatro, che cosa rappresenteranno?

      – Qualche dramma terribile – rispose Fedoro. – Saranno artisti di vaglia, perché un signore come Sing-Sing non può permettersi di presentare degli attori scadenti.

      – Delle vere celebrità?

      – Sì, Rokoff.

      – Che io non potrò comprendere non avendo che una imperfetta conoscenza della loro lingua.

      – Dalla loro mimica qualche cosa potrai indovinare.

      – Un’altra portata!

      – Non è che la sedicesima – disse Fedoro. – Tutti piatti dolci.

      – Sono mandorle quelle che nuotano in quello sciroppo giallastro?

      – Non te lo dico, altrimenti scapperesti via.

      – Se non sono fuggito finora! E poi, sono un cosacco e lo stomaco resisterà!

      – Non dinanzi a quel piatto.

      – Orsù, Fedoro, dimmi che cosa contiene.

      – Un pasticcio che farà andare in estasi i convitati. Quelle bestioline color marrone che vedi…

      – Bestioline.

      – Larve, se ti piace meglio.

      – Ah!… Quali?… Indovino! – esclamò il cosacco inorridendo.

      – Larve di bachi da seta macerate nello sciroppo.

      – Basta, Fedoro! Per le steppe… scappo via!

      – Bada! Non mostrarti maleducato.

      – È troppo!…

      – Volgi altrove gli occhi. Ecco il primo attore che si mostra.

      Fra una miriade di lanterne microscopiche, danzanti su alcuni fili, era comparso un antico armigero in costume ricchissimo, cremisi ed oro, formidabilmente armato, con un cimiero scintillante che voleva rappresentare una testa di leone.

      Era Hong-ko, l’eroe della cavalleria cinese, una specie di cavaliere errante del Medio Evo e che si preparava a vincere imperatori e mandarini, a trucidare spiriti maligni ed a mettere lo scompiglio dappertutto.

      Lo seguivano altri armigeri e paggi vestiti da imperatrici e da regine, tutti abbigliati sfarzosamente, acclamanti il formidabile guerriero con profondo entusiasmo.

      I convitati si erano appena degnati di gettare uno sguardo sugli attori, i quali avevano cominciato a declamare ed a battagliare fra di loro a gran colpi di spade e di lance. Quantunque pieni come otri, avevano ripreso lena per far onore alle larve dei bachi da seta, uno dei più deliziosi piatti dolci dell’infernale cucina cinese.

      – Comprendi qualche cosa? – chiese Fedoro a Rokoff, il quale pareva interamente assorto a seguire le diverse fasi della commedia o del dramma che fosse.

      – Sì, che si bastonano maledettamente – rispose il cosacco. – Mi pare che a quest’ora siano stati uccisi cinque o sei imperatori malvagi e non so quanti spiriti maligni. Un terribile uomo quell’armigero. E le portate, continuano?

      – Siamo quasi alla fine. Fra poco berremo il tè.

      – Che cosa stanno mangiando ora? Dei serpenti fritti?

      – No, mi pare che siano dei ventrigli di passero con occhi di montone all’aglio.

      – Quando avranno finito me lo dirai – disse il cosacco. – Non oso più guardare la tavola.

      – Hai torto, perché hanno portato ora un nuovo piatto, che tutti gli europei hanno dichiarato eccellente.

      – Non mi fido.

      – Si tratta d’una zuppa famosa.

      – Dove c’entreranno per lo meno delle code di gatto?

      – No, Rokoff: ecco la ricetta che io ho studiato sul «Cuciniere cinese»:

      «Prendi quanti nidi di rondini salangane potrai, perché di questa leccornia non ne offrirai mai abbastanza ai tuoi amici.

      «Dopo aver tolte via le penne e le altre materie inutili, farai cuocere i nidi nell’acqua fino a che formino una massa gelatinosa.

      «Versa il tutto su uova sode di piccione, aggiungi alcune fette di salsicciotto, le quali devono galleggiare


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