I figli dell'aria. Emilio Salgari
prima non ho veduto entrare nessuno.
– Da qual parte si sono introdotti quegli uomini?
– Da quella – rispose Rokoff, indicando un angolo della stanza.
– Stavo per addormentarmi, eppure ho veduto aprirsi una porta o qualche cosa di simile.
Fedoro si recò a visitare la parete battendola col calcio della rivoltella e udì un suono sordo che non annunciava di certo che al di là ci fosse un vuoto.
– È strano! – disse. – Eppure tu li hai veduti entrare per di qui?
– Sì, me lo ricordo.
– E non vedo alcuna traccia sulla tappezzeria; tuttavia non mi stupisco. Questi cinesi hanno inventato mille segreti. Dov’è il maggiordomo?
– Eccomi, signore – rispose il cinese, il quale stava ritto accanto al letto, piangendo silenziosamente.
– Sono devoti i servi di questa casa?
– Lo credo, signore.
– Sono affiliati a qualche società?
– Non potrei dirvelo, perché nessuno lo direbbe, anche se sottoposto alla tortura.
– Chi è stato il primo ad accorgersi del delitto?
– Io – rispose il maggiordomo. – Ogni mattina premo il bottone d’un campanello elettrico per svegliare il mio padrone. Stamane feci come il solito, e non ricevendo risposta, né udendo alcun rumore, mi nacque il sospetto che fosse accaduta qualche disgrazia. Fatta abbattere la porta, ho trovato il mio signore assassinato.
– Era ben chiusa? – chiese Fedoro.
– E per di dentro.
– Non vi era alcuna traccia che fosse stata forzata?
– Nessuna, signore.
– Sapevi che noi eravamo chiusi qui col tuo padrone?
– Lo ignoravo, e poi… come spiegare questo mistero? Voi vi siete svegliati proprio nella stanza che io stesso vi ho assegnata per espresso ordine del mio padrone.
– Ti dico che eravamo qui. Chi può averci trasportati in quella stanza?
– Ne siete certo, signore? – chiese il maggiordomo con accento alquanto incredulo.
– Sì, noi eravamo qui.
– Se la porta era chiusa!
– Eppure non abbiamo sognato. Il tuo padrone aveva paura di venire assassinato e ci aveva pregati di tenergli compagnia.
– E vi siete svegliati nella vostra stanza? Oh!
– Ci hai ben veduti uscire.
– È vero – disse il cinese, il cui stupore non aveva più limiti.
Poi, come fosse stato colpito da un improvviso pensiero, chiese:
– Voi avete veduto il mio padrone toccare la molla segreta che doveva aprire la porta?
– Eravamo assieme a lui – rispose Fedoro.
Il viso del maggiordomo si fece oscuro ed i suoi occhi si fissarono sul russo.
– Ah – disse poi.
– Che cos’hai? – chiese Fedoro con inquietuline.
– Dico che se conoscevate il segreto della molla, potevate anche uscire e tornare nella vostra stanza.
– Tu oseresti sospettare di noi?
– Non è a me che tocca indagare su questo affare misterioso, – disse il cinese con voce lenta – bensì ai magistrati della giustizia. Ecco la polizia: sbrigatevela come meglio potete.
UN’ACCUSA INFAME
Un cinese piuttosto attempato, tozzo, dall’aria arcigna, con una lunga coda che gli batteva le calcagna e un paio d’occhiali giganteschi che gli coprivano buona parte del viso, era allora entrato nella stanza, seguito da quattro individui d’aspetto punto rassicurante e armati di scimitarre.
Vedendo i due europei, i quali erano rimasti come fulminati dalle ultime parole del maggiordomo, mosse verso di loro, salutandoli con affettata cortesia.
– Chi siete voi? – chiese Fedoro, che cominciava a diventare assai inquieto per la brutta piega che prendevano le cose.
– Un magistrato della giustizia – rispose il cinese.
– Ah! Benissimo: farete almeno un po’ di luce su questo misterioso delitto.
– Io credo di averla già fatta – rispose il magistrato, con un risolino sardonico. – Ho già interrogato la servitù e so molte cose a quest’ora che non vi faranno certo piacere.
– Vi prego di spiegarvi – disse Fedoro, impallidendo. – So già che si cerca di gettare su di noi il sospetto d’aver assassinato il povero Sing-Sing, ma noi vi proveremo l’insussistenza d’una tale mostruosa accusa.
– Ve lo auguro; disgraziatamente vi sono ormai troppe prove contro di voi e abbiamo anche trovata l’arma che ha spento Sing-Sing.
– E dove? – chiese Fedoro.
– Nella vostra stanza.
– È impossibile! Voi mentite! – gridò il russo. – Rokoff, amico mio, queste canaglie cercano di perderci!
– Noi? – chiese Rokoff, il quale non aveva compreso fino allora che pochissime parole, conoscendo la lingua cinese assai imperfettamente.
– Dicono che hanno trovato nella nostra stanza il coltello.
– Ve l’avranno posto coloro che ci hanno trasportati sui nostri letti. La cosa è chiara.
– Per noi, sì, ma non per questo magistrato e nemmeno per la servitù.
– Si convinceranno.
– Volete seguirmi? – chiese il magistrato, volgendosi verso Fedoro.
– E dove? – chiese questi.
– Nella vostra stanza.
– Andiamoci – disse Fedoro, risolutamente.
Appena usciti, videro schierati nel corridoio attiguo parecchi servi i quali li guardavano quasi ferocemente.
– Hai osservato, Rokoff? – chiese Fedoro. – Tutti sono convinti che noi abbiamo assassinato Sing-Sing e tutte le prove stanno contro di noi.
– Ricorreremo ai consoli – rispose Rokoff. – Questi cinesi non oseranno arrestare due europei.
– E chi li avvertirà? Non abbiamo nessun amico qui.
– Troveremo il modo di far sapere all’ambasciata russa il nostro arresto. Canaglie! Incolpare noi!
– Più canaglie sono stati gli affiliati della società segreta, i quali hanno agito in modo da far ricadere su di noi questo infame delitto.
Giunti nella stanza, il magistrato si diresse verso il letto che Rokoff aveva occupato, levò il materasso ed estrasse un pugnale lungo un buon piede, con la lama di forma triangolare, coll’impugnatura sormontata da una piccola campana d’argento.
L’arma era insanguinata fino alla guardia.
– Lo vedete? – chiese, mostrandolo ai due europei, smarriti. – Sing-Sing è stato ucciso con questo e voi, compiuto il delitto, l’avete nascosto qui. Potevate essere più furbi o per lo meno più prudenti.
– E voi credete? – chiese Fedoro, facendo un gesto di ribrezzo.
– La prova è chiara – disse il cinese con un sorriso maligno.
– E non vedete che questo pugnale non è di quelli che si usano in Europa?
– Potete averlo comperato qui od in altra città.
– È un pugnale appartenente ad una società segreta. Guardate, vi è una piccola