Il figlio del Corsaro Rosso. Emilio Salgari

Il figlio del Corsaro Rosso - Emilio Salgari


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si spaccano le teste! – urlò il soldato furiosamente.

      – Infilatevi prima i calzoni – disse ironicamente il corsaro. – Non vedete che avete indosso le sole mutande?

      – Anche in camicia i guasconi sanno uccidere!

      Con un’agilità da pantera aveva saltato il letto, piombando sul corsaro con impeto feroce, ma aveva dovuto subito fermarsi, vedendo i compagni del conte levare le pistole.

      – Volete assassinarmi? – chiese, facendo sollecitamente due passi indietro.

      – Amico – disse il corsaro – In altri momenti vi avrei fata la proposta di uscire, di fare una passeggiata fino alle mura del cimitero e là misurarvi con me. Disgraziatamente, o meglio, fortunatamente per voi, non ho tempo da perdere. O mi vendete il vostro vestito, o sul mio onore vi faccio uccidere con un colpo di pistola. Orsú, accomodiamoci e lasciamoci da buoni amici. Vi offro venti dobloni.

      Il soldato spiccò un salto.

      – Siete qualche principe per pagare cosí bene un miserabile vestito, o avete fatto fortuna al Messico?

      – Non sono altro che un conte e non ho mai veduto le miniere di quel paese. Accettate o rifiutate?

      – Per tutti i tuoni di Biscaglia! Sarei un gran cretino se rinunciassi a una tal somma. Con venti dobloni compro due uniformi fiammanti e faccio crepare di rabbia i miei camerati.

      Il conte trasse una borsa ben gonfia e depose sull’orlo della tavola le venti monete d’oro.

      – Vi regalo anche la mia draghinassa, signor conte, – disse il guascone che pareva volesse divorarle con gli occhi.

      – Preferisco tenermi la mia spada.

      – Cerca di regalarci qualche bottiglia invece, se l’hai – disse Mendoza,

      – Ho dell’aguardiente che non si beve nemmeno a Vera-Cruz.

      – Tirala fuori, camerata. Noi abbiamo il pessimo vizio di aver sempre sete, forse perché respiriamo troppa aria salata.

      – L’ho anch’io quel vizio: eccomi subito!

      Lasciò cadere in un vecchio cassone i venti dobloni, facendoli saltare l’uno sull’altro, per udire meglio il suono dell’oro; poi tirò fuori una bottiglia e dei bicchieri. Mentre versava, il conte, che aveva quasi la medesima statura del guascone, si spogliava rapidamente, per indossare il vestito del soldato. Quand’ebbe finito di abbigliarsi, vuotò a sua volta un bicchiere di aguardiente, poi, volgendosi verso il guascone, gli disse:

      – Ed ora lasciatevi legare ed imbavagliare. Scendendo avvertiremo qualcuno che è toccato un accidente al signor Barrejo, cosí verranno a liberarvi.

      – Siete gentile, signor conte, ma preferirei non sentirmi un fazzoletto sopra i baffi.

      – Le tentazioni sono pericolose per tutti. Potreste pentirvi dell’affare concluso e mettervi a gridare dietro di noi: al ladro!

      Il guascone fece un superbo gesto di diniego, poi si voltò per lasciarsi legare. Mendoza e Martin che, come tutti i marinai, non mancavano mai di corde, in pochi momenti ridussero il soldato all’impotenza; lo imbavagliarono per bene e lo gettarono sul letto.

      – Buona fortuna – disse il basco un po’ ironicamente.

      Il guascone si agitò un po’ tentando di rispondere, poi restò immobile come se si fosse addormentato di colpo. Il figlio del Corsaro Rosso si calò l’elmetto sul viso per non essere riconosciuto, aprí la porta con la chiave che il guascone gli aveva data e scese tranquillamente da una lunghissima scala, seguito dai suoi due uomini. Erano entrati in una vecchia casa a tre piani che aveva i gradini ormai consumati e le pareti annerite, abitata certamente da popolani. Stavano per uscire sulla via, quando sulla porta s’incontrarono con una vecchia negra, la quale portava sulla testa lanuta un gran canestro pieno di banane.

      – Buon giorno, signor Barrejo – disse vedendo il corsaro.

      – V’ingannate, buona donna – rispose il conte. – Sono un suo amico. Anzi, appena potrete, salite nella sua soffitta, perché pare che quel povero uomo non stia troppo bene.

      Ciò detto varcò la soglia e si allontanò velocemente, sempre accompagnato dai due filibustieri, i quali potevano benissimo essere scambiati per due marinai frettolosi d’imbarcarsi. La via era quasi deserta, poiché gli abitanti di tutte le città spagnuole del Golfo del Messico hanno l’abitudine di sospendere da mezzogiorno alle quattro i loro affari per schiacciare un sonnellino.

      – Martin, tu che conosci a menadito la città, guidaci verso il porto – disse il conte, quando si trovarono in mezzo a degli orti.

      – Non ne siamo lontani che due tiri d’archibugio – rispose il mulatto.

      – Mi preme di vedere come hanno circondato la mia fregata.

      – Ma non potremo raggiungerla senza destare dei gravi sospetti – osservò il prudente Mendoza.

      – Lo so, ed è questo che mi dà noia. Come potremo noi metterci in relazione col mio luogotenente? Ecco la gran questione. Io non dubito che egli possa aprirsi un varco fra i galeoni, le caravelle e rifugiarsi tranquillamente alla Tortue. Eppure è necessario che io m’imbarchi, prima che il segretario del signor di Montelimar si rechi nei Messico.

      – Forse a me riuscirebbe – disse Martin. Un mulatto non può destare gravi sospetti, e voi sapete che io nuoto meglio d’un pesce e che so anche percorrere dei tratti lunghissimi sott’acqua.

      – Lo so bene – rispose il conte. – Ed appunto per questo ti ho arruolato.

      – Non sarà quindi una faccenda difficile per me calarmi inosservato in mare e raggiungere la fregata.

      – Potrebbero scorgerti e ucciderti. Degli ordini severissimi saranno stati dati perché io non possa raggiungere la mia nave, o mandare qualche messo.

      – Non vi occupate di ciò, capitano – rispose il mulatto. – Se gli spagnuoli sono furbi, io non lo sono meno di loro.

      – Vedremo – rispose il signor di Ventimiglia, il quale appariva molto pensieroso per la brutta piega che prendevano le cose.

      Si erano rimessi frettolosamente in marcia, attraversando dei giardini e delle piccole piantagioni di banani, e tenendosi prudentemente lontani dalle rare case che sorgevano qua e là.

      Un quarto d’ora dopo giungevano in vista della rada, sbucando in un luogo quasi deserto.

      Il conte si era bruscamente fermato e borbottava stringendo i pugni.

      – Affare serio! – disse Mendoza.

      E l’affare era veramente grave.

      Quattro galeoni, quelle grosse navi per lo piú destinate a portare i prodotti delle preziose miniere del Messico e dell’America centrale in Europa, e cinque caravelle avevano lasciato i loro ancoraggi ed erano andate a radunarsi presso l’uscita del porto, disponendosi su una doppia fila: i primi dinanzi, le seconde, molto piú deboli e meno equipaggiate, di dietro.

      In mezzo alla rada, del tutto isolata, stava la fregata del conte, una splendida nave a tre alberi, lunghissima e stretta, e armata di ben ventiquattro pezzi d’artiglieria lungo i fianchi e di due grosse caronade in coperta, sull’alto cassero.

      Sulle calate, ingombre di mercanzie, numerosi alabardieri passeggiavano, sorvegliando attentamente, a quanto pareva, le navi mercantili e le barche da pesca che dovevano probabilmente aver ricevuto l’ordine di non lasciare gli ancoraggi.

      – Come se la caverà il luogotenente? – si chiese il conte, il quale con un solo sguardo aveva abbracciato la situazione. – Che cosa ne dici tu, Mendoza?

      – Io dico, signor conte, che il signor Verra si leverà d’impiccio con molto onore, e che darà una terribile lezione ai galeoni e anche alle caravelle – rispose il vecchio filibustiere. – Ha un bel numero di bocche da fuoco e della gente che ha un cuore che non ha mai tremato.

      – È vero, ma… – fece il figlio del Corsaro Rosso, scuotendo la testa.

      – Voi


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