Lo assedio di Roma. Francesco Domenico Guerrazzi
e della sua gloria; non fare come gli sciagurati perdigiorno i quali campano mangiandosi il capitale raccolto dai nonni. Nè mi uggiscono meno il vanto e la lode dell’antica civiltà etrusca, che affermano antecedente fino alla pelasgica, ed a certa degna persona che meco se ne congratulava risposi: – gran mercè, quantunque in coscienza io non mi estimi erede del re Porsenna, nè dei Lucumoni. – Chè se la civiltà toscana altro non seppe che somministrare i riti religiosi ai Romani, che furono detti cerimonie da Cere città sacra etrusca, e lo scettro, e la sedia di avorio, non che il manto purpureo ai re di Roma, io renunzio a questo retaggio di civiltà per me, e per tutti i miei discendenti in perpetuo; tra noi se il Piemonte si onora del Denina, del Lagrangia, del Galliani, del Botta, del Gioberti, del Pellico, dello Sclopis, del Balbo, del Cibrario, del d’Azeglio, del Mossotti, dello Alfieri e di altri simili, la Italia di contro a loro vanta caterve di uomini insigni in ogni maniera di sapienza umana; la Lombardia ha Scarpa, Volta, e Verri, e Beccaria, e Manzoni, e Grossi, e Cattaneo, e Ferrari, e Romagnosi; la Emilia Leopardi, Bufalini, Puccinotti, Matteucci; Parma, Giordani, Recanati, Leopardi; Napoli e Sicilia Colletta, Ranieri, Nicolini, Melloni, Piria, Pilla, gli Amari Emerico e Michele; Modena, il Nobili; la Toscana il Niccolini; il Ferrarese Monti; Venezia Ugo Foscolo; Verona Pindemonte, e via e via. A Brofferio oppongo il Giusti; e noto, che la satira di questo ultimo si spande per la Italia, e ci alligna, mentre quella del primo discolora, non mica per difetto d’immagini, ovvero di felici scappate, bensì perchè anteponendo il dialetto piemontese alla lingua italiana ordì tela municipale; e che razza di dialetto sia il piemontese che ve lo dica per me, tanto che udendo un giorno recitare dal buon Brofferio taluna delle sue canzoni piemontesi alla domanda ch’ei mi mosse: che me ne pareva, io risposi netto: me ne pare questo, che credendo avere appreso dalla mitologia che Apollo avesse scorticato Marsia; ora mi accorgo dello errore, almeno quì in casa vostra, dove sento Marsia cavare Apollo «dalla vagina delle membra sue.» Alfieri merita abitare eterno co’ grandi che gli fanno corona.... le sue ossa bene stanno in Santa Croce a fremere amore di Patria, con insigne scandalo dei moderati a cui più dei fremiti garbano i belati o i ragli; ma egli è forza avvertire, che l’Alfieri voleva bene al Piemonte come gli occhi al fumo, ed aborrì viverci, e tra noi elesse morire; il fiero animo dell’Astigiano per noi cortese anco troppo esclamava ad onoranza della mia Patria:
«Deh! che non è tutta Toscana il mondo.»
come modesto soverchiamente in proposito dello idioma, che oggi presumono insegnarci questi bizzarri fratelli piemontesi egli scriveva:
«Stranio innesto son io su tosco stelo.»
E Botta visse esule da casa sua, e Gioberti altresì, il quale diverso dalla indole piemontese, pare favilla balestrata a Torino dalla eruzione del Vesuvio; e non sarebbe maraviglia, però che si legga, che quando prima ruppe il monte pauroso la lava andò a cascare fino in Alessandria. Se in arti, in iscienze, ed in lettere noi non possiamo insegnare niente ai piemontesi non ci si apponga ad jattanza se affermiamo nè manco noi altri italiani avere nulla da apprendere tra loro. Per amministrazione si governano peggio della lombarda, e questo ho toccato con mano; quanto a legge per amore di unità incaponivano a volerci a parte nella beatitudine della corda, con errato consiglio non meno che con mente iniqua; imperciocchè se la morte abolita efficacemente è segno di buona civiltà acquistata, perchè dobbiamo noi altri toscani stornare alla barbarie, e non voi piemontesi allungare il passo per agguantarci sulla via della civiltà? Ma tutto questo suona prosuntuosa insipienza di curiali; di vero se per sopprimere la pena di morte si desidera stato più perfetto di civiltà, o con qual giudizio v’incocciate a mantenere questa pena, la quale tra le barbare è barbarissima, e tra le inique scellerata delle instituzioni umane? Per leggi civili portava il vanto Napoli; le industrie agricole migliori in Toscana che in Piemonte; nelle urbane Piemonte supera, ma contaci la Liguria, che parte di Piemonte fu per violenza, non però per indole, nè per volontà. Avanzano le armi.
Di quali armi favellate voi uomini piemontesi? Quando tra noi fioriva la onorata milizia, di voi non ci giunse novella; nella scuola dei Bracci, e dei Piccinini, tra gli Sforza da Cutignola, gli Alviano, i Colleoni, e tanti altri famosi si ricorda unico il Carmagnola; più tardi tra i Colonna, i Pescara, Giovannino dei Medici, gli Strozzi, il Ferruccio, i Doria, i Sanseverino, gli Orsini, i Farnese, gli Spinola unico Emanuele Filiberto; di cui gloria immortale la battaglia di San Quintino, la quale non egli vinse, bensì il conte di Aiamonte, il principe di Brunswick, e i conti di Hornes, e di Mansfeldt; Emanuele Filiberto arriva tardo sul campo di battaglia, e quando i francesi rotti fuggivano inseguiti dai raitri; solo con le artiglierie egli disperse l’ultimo corpo di fanti guasconi, che combattevano, disperati della vittoria, per proteggere la ritirata; nè seppe usare poi della vittoria, chè proseguendo il corso prospero avrebbe preso a mano salva tutti i francesi senza eccettuarne pure uno; e questo chiariremo con prove espresse se a Dio piacendo mi condurrò a dettare la vita di cotesto duca di Savoia. Certo con gloria maggiore o minore trattarono le armi i principi di Savoia; con grande Tommaso, con massima Eugenio; ma se togli l’ultimo gli altri ebbero emuli pari se non superiori a loro; questi poi veruno. Nel periodo lungo delle guerre napoleoniche i più famosi capitani come Bertoletti, Pino, Teuliè, e Vacani uscirono di Milano, i tre Lechi o Mazzucchelli da Brescia, Lahoz e Peyri furono mantovani, Bianchini, l’eroe di Tarragona, bolognese, il maresciallo Bianchi da Corno, Viani veronese, Zucchi reggiano, Severoli faentino, Palombini di Roma, Fontanelli da Modena, Colletta di Napoli; solo due noti nelle storie dava tutto il Piemonte, più illustre il primo, che fu Rusca, meno il secondo nominato Serras; nella guerra del 1848 venne fuori il Bava capitano di abilità mediocre, e di cattiva fortuna; nel 1849 ebbero ricorso a capitano straniero con perdita di riputazione, e sciagura della impresa. Adesso fanno caso grande del Lamarmora, ma non tutti in lui ripongono fede; ad ogni modo gli preferiscono il Cialdini od anco il Fanti, i quali insieme al Cucchiari vengono da Modena. Quanto a Garibaldi ormai è convenuto che generale matricolato non si possa estimare; di fatti della milizia ei sa una parte sola, una sola, tutte le altre ignora, e questa una è quella di vincere le battaglie.
Questo intorno ai capitani; circa le milizie quando per tutta Italia andavano famose le Bande nere, ed anco la ordinanza della Milizia fiorentina le soldatesche del Piemonte si reputavano le più scadenti di tutte. – E perchè non paia avventato e maligno il mio dire, siami lecito riportare quanto trovo sparsamente scritto intorno ai capitani, e alle milizie piemontesi durante il secolo decimosesto nelle relazioni degli ambasciatori veneziani arguti nell›osservare quanto schietti nello esporre. Ora di queste relazioni io ne conosco cinque, stampate a Firenze; la prima è di Andrea Boldiù la quale è tratta dalla biblioteca Capponi insieme coll›altra del Lippomano, che al nostro scopo non approda; due ne somministra l›archivio reale di Torino e sono di Sigismondo Cavalli, e di Giovanfrancesco Morosini, l›ultima pubblicava il signor Cibrario. Quanto a› capitani; e ai soldati afferma il Boldiù: «ha parlato assai sua eccellenza; sebbene non ha terminato cosa alcuna di dare forma alle genti del suo paese nel modo che sono le cerne di vostra serenità, che si chiamano ordinanze; per le quali già ha fatto colonnelli e nominati molti capitani, pochissimi dei quali sono, come intendo, che abbiano comandato in guerra alcuna. E cercando io poi di sapere quanto si sperava, che potesse essere il numero di queste ordinanze mi viene affermato, che per servire nel paese ascenderiano a 24000 uomini, ma volendo condurli fuori non passeriano 8000, ma questi buoni veramente.» Il Cavalli più alla recisa: «di uomini da guerra, che abbiano servizio con sua eccellenza, nè dei suoi sudditi, nè di altri vi ho conosciuto persona di gran nome o valore, salvo che il Signore della Trinità, il quale vostra serenità avrà inteso nominare per le operazioni onorate che fece alle imprese di Cuneo e Fossano.... il signor Duca non si serve gran fatto di lui, prima perchè non vuole mostrare, che quello che fa sia per consiglio del medesimo; poi (nota, o riponi in mente lettore) perchè dove tutti gli altri suoi servitori gli parlano con molta timidità, lui per dire il vero 0 quando si trova in Corte parla più liberamente… per tal causa vive il più del tempo ritirato in casa sua. Vi è ancora il signor Masino, che a tempo di guerra era vice-duca, questi è galantuomo e cavaliere liberale, ma nel fatto di guerra non ha mostrato virtù sopra gli altri. Il conte d’Arignano ancora lui è prudente gentiluomo, ma non ha fatto operazioni, che, meritino essere rammentate più, che tanto. Restano alcuni privati capitani, che si possono riputare buoni soldati, ma non sono persone di grande portata.»
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