Lo assedio di Roma. Francesco Domenico Guerrazzi
di bisogno rompere i ponti, turare botti sotterranee, buttare all›aria carreggiate. Roma quasi naturalmente diventa il nodo delle ferrovie, che dal settentrione mettono capo al mezzogiorno d›Italia, e se soltanto di strade militari Roma antica ne annoverava quindici ora potrebbero occorrendo con molta agevolezza moltiplicarsi non considerando più impedimento nè picchi impervii, nè torrenti indomati.
In questo punto, forse non senza profitto, ricordo come le strade militari di Roma pigliassero tutte le mosse dal pilastro della fontana ove i gladiatori uscendo dal circo andavano a lavarsi le ferite; onde non parrà strano se cotesti sentieri contaminati nel loro principio di sangue schiavo diffuso per feroci diletti servissero poi per portare al mondo la servitù.
Contro la opinione del sommo Capitano havvi (io non lo vo› tacere) quella del Goethe, la quale da noi si potrebbe agevolmente chiarire inane, imperciocchè sebbene egli abbia vaghezza di favellare di tutto, non però ci ne discorra bene del pari, compiacendo a certo talento, ai nostri giorni assai comune, di comparire onniscienti, il quale viene assai promosso dai nuovi metodi d›insegnamento, su di che aprirò un mio concetto, che ho sperimentato vero ed è questo: quanto lo ingegno nostro acquista di estensione altrettanto perde di profondità: ma i modi stessi che il Goethe adopera dimostreranno quanto poco caso abbia a farsi del suo giudizio. Ora ecco le sue parole estratte dal Viaggio in Italia, 25 gennaio 1787. «La terra dove giace l’antica capitale del mondo basta sola a richiamarci al pensiero la qualità della sua fondazione, dacchè subito tu ravvisi come costà siasi fermata una tribù di gente avveniticcia, condotta alla ventura da capi imperiti; il caso non la sapienza menò costà una mano di vagabondi, certo con tutto altro concetto che fondare il centro di vastissimo impero. I più forti tra loro dopo avere costruito in vetta a’ colli i palagi pei padroni del mondo lasciarono in balìa degli edificatori avvenire i paludosi canneti delle sponde del Tevere, e delle falde dei colli; così le sette colline non valgono a difendere affatto Roma dal lato della pianura; tuttavolta se a primavera mi venga concesso di visitare più accuratamente mi tratterò con maggiore lunghezza a dimostrarvi la positura pessima della capitale del mondo. Intanto io mi addoloro alla passione delle donne di Alba, le quali, dopo distrutta la gioconda loro città, furono condotte repugnanti a respirare le nebbie del Tevere, fermandosi sopra la povera collina di Cornelio, donde potevano ad ogni momento volgere gli occhi desolati al paradiso ch’elleno avevano perduto.»
Rimpianti antichi e comuni in Italia, dei popoli, i quali tolti dai luoghi montanini furono avviati a vivere vita meno agreste nei piani; così fra noi Toscani Fiesole. Al Goethe poi, giovane allora e vago di venture, il tempo per considerare meglio non sovvenne, e coteste sue parole balestrate a vanvera rimangono piuttosto a detrimento della fama di lui, che pregiudizio a Roma, a cui i colli fecero sempre temuto schermo se consideriamo da qual lato movessero gli assalti al tempo del contestabile di Borbone, e a quello di che ora noi favelliamo. Molti hanno scritto delle grandezze di Roma, e noi stessi più volte secondo ci dettavano meraviglia ed amore; la sua miseria, come succede, vinse la sua grandezza di assai. Il Montaigne afferma che di Roma antica non rimane più il cadavere, anzi nè pure il sepolcro, avendo i suoi nemici seppellito anco quello; Lutero a sua posta la deplora come mucchio infelice di ceneri, le case ora cominciano dove un dì terminavano i tetti, e tante erano le macerie, che ingombravano ai suoi tempi le vie, ch’egli ne accerta averne vedute fino all’altezza di due lance di lanzechenecchi; le volpi durante il giorno appiattate pei ruderi del Palatino vanno nella notte a bere nel Velabro. Ed anco ai tempi che corrono mandre di pecore, di bovi, e di cavalli selvaggi ti avvertono il deserto cingere attorno la città, o piuttosto la natura silvestre: appena varcate le porte ecco dinanzi a voi lo spazio sterminato e mesto; il sole sembra versarvi sopra con la luce la malinconia, e la malaria: di tratto il cane custode dell’armento si avventa sul passeggero che nella sua salvatichezza non distingue dal lupo; il bufalo leva il capo dalle erbe paludose e seguita lungamente il pellegrino attonito che altra orma eccetto la sua si stampi in cotesto deserto; nuvoli di corvi gracidanti pare che ti presagiscano la febbre maligna in pena della tua audacia di avere penetrato nel loro dominio. In mezzo a cotesto lugubre silenzio ti accorgi che la desolazione stessa consumate le grida, e il pianto ora si tace: non più coltura, non più popolo, gli acquedotti sono privi di acqua, le tombe di ceneri. Ci sono i Preti!
E tuttavia scrive Livio con la consueta sua magnificenza: «non senza consiglio gli Dei, e gli uomini scelsero cotesto luogo per porvi Roma; quivi colli saluberrimi la circondano, quivi il fiume destro per trasportare agevolmente dalle spiaggie mediterranee le vittuarie, e i cibi marini; prossimo ha il mare per le sue comodità, non però troppo da temere offesa di armate nemiche: luogo unico insomma per giacitura in mezzo alle terre d’Italia, e per augumento di Roma.»
Ma Livio non presagiva il dominio dei Preti capaci a disfare in tre quanto il Creatore fece in sette giorni con le poderose sue mani: e posto eziandio, che Livio movesse soverchio affetto ella è cosa sicura, che Roma sotto Augusto conteneva quattromilioni di anime, e ai tempi di Vespasiano il suo circuito sommasse a 13,200 passi. Roma aveva are, e sacerdoti, e vittime votive, e messi da parte gli emblemi di forza prepotente a ragione la salutarono ed effigiarono sotto Nerva Roma felice con in mano un timone per chiarire come a lei spettasse il governo del mondo.
Ora giova pel suoi nuovi destini, ch’ella sia così, imperciocchè l’uomo pigli amore alle cose che gli costano fatica, massime se trovi il compenso largo alla opera durata; la quale ragione essendo pari per gli obietti animati ovvero inanimati spiega la causa per la quale i padri tanto si appassionino pei figliuoli. Nè io mi condurrò mai a credere, che la natura ci abbia dichiarato perpetua guerra, però che questo sarebbe contrario al fine della creazione: di vero sebbene da prima più spesso e con maggiore ampiezza, oggi rado, e ristretto la natura agitandosi muta mari in deserti, e viceversa, e monti in valli o valli in monti trasformando orribilmente l’aspetto delle cose, pure gli uomini assai più tenaci delle formiche non isgomentandosi tornarono indefessi al lavoro, ed ora la natura quietata lascia vincersi, ma da mani valorose, ricordando in certa guisa i connubi spartani, dove al marito toccava usare una quasi violenza alla moglie, e ciò perchè accendendosi più veemente l’appetito ne nascevano figliuoli gagliardi a maraviglia e belli.
Dove mai per ricerche ed esempi si dimostrasse che la natura veramente sta in guerra contro l’uomo, con esempi manifesti e non meno copiosi mi rimarrebbe a chiarire come non sia da per tutto così; e nelle parti dov’ella soverchia troppo, l’uomo intontito si rannicchia nella inerzia, mentre all’opposto nelle meno dure cresce di coraggio facendo come alle braccia con la natura, e le fora i monti, le incatena torrenti, mette il morso al mare, le acchiappa il fulmine, e se ne serve da corriere, e ad altre maggiori audacie egli si attenta nè ella se ne cruccia: però non parmi vero, nè utile affermare la necessità della guerra perpetua della natura contro l’uomo, dello spirito contro la materia, della libertà contro la fatalità.
Quello, che io affermo troviamo giusto considerando che nulla impedisce, che Roma possa tornare quale fu prima, e qualche segno ne vediamo anco adesso nel bonificamento delle paludi pontine, e Roma, che cascò fino a non contare dentro i suoi muri oltre sessantamila anime, risorse a stato meno infelice.
Quivi città da popolare, terre a dissodare, culture a instituire, paduli a prosciugare; quivi elementi fruttuosi proposti all’esercizio delle industrie umane: Roma a conquistare; l’antichissima Roma diventò quasi un nuovo mondo aperto alla solerzia degl’Italiani; l’acquisto di terra agevole, ferace per lungo riposo, le opere da condurre, premio corrispondente alla fatica somministrano altrettante cause per desiderare di possederla, e posseduta tenerla per ogni verso accettissima.
Non importa, che Roma torni alla immane grandezza dei tempi di Augusto, e tuttavia bisognerà pure che cresca oltre quello che adesso è, per la quale cosa giova, che ella abbia luoghi vuoti di abitatori e desideri riempirli, e maggiormente diventerà scema per lo spulezzare di tanti scarafaggi forestieri usi a comparire dove si fa pattume, ed a scomparire dove il pattume si rinetta. Le varie parti d’Italia forniranno il proprio contingente di nuovi incoli che alla nuova dimora porranno amore pure ritenendo l’affetto per l’antica, donde certamente hanno da scaturire due beni, che Roma diventerà capitale di tutti, e di nessuno esclusivamente; Panteon delle rappresentanze dei diversi popoli italiani; stretta con vincoli quasi di parentezza con tutte le città italiche; l’altro, che i vari Municipi parranno come confusi in lei: nè dinanzi a Roma alcuno sentirà rimuginarsi dentro l’uzzolo di primeggiare;