Lo assedio di Roma. Francesco Domenico Guerrazzi

Lo assedio di Roma - Francesco Domenico Guerrazzi


Скачать книгу
liberali del proprio non mi parvero troppo, ma nè anco costumano pigolarti attorno per avere del tuo; ossequiosi per abito, non per viltà; tenaci dell’oggi, previdenti del domani, e perchè in un concetto solo io stringa quello, che potrei forse stemperare in molto, i Piemontesi possiedono a capello le qualità capaci a guarire noi dai vizi del rilassamento, della incostanza dei propositi, della fatuità delle affezioni, dell’abbiosciatezza in ogni ufficio onde si compone il vivere civile.

      Tuttavolta la prosunzione collettiva nel Piemontese occorre, e di molto; gli viene dai suoi maggiorenti interessati a fomentarla: gliela inocchiano i Giornalisti venduti; gliel’aizzano i Moderati consenzienti che altri divori, ed opprima a patto che possano rosicchiare essi, ed opprimere di seconda mano, nè trovo verso migliore a farla cessare, che uscire da Torino trasportando la sede del governo a Roma. I Torinesi per altra città non consentirebbero, o a malincuore consentirebbero; per Roma sì; di vero quale città italiana potrebbe stare a petto di Roma per magnitudine di memorie antiche, e per presagio di futura grandezza? Il popolo di Torino, certo finchè cotesta città resti capitale ne sfrutta il benefizio e ne gode, ma si è persuaso, che così non può durare, e talora udii da lui medesimo esporne le ragioni: certo verranno alcune industrie a patirne, ma le sono di quelle, che non fanno ricchezza permanente, bensì transitoria: anzi pure di quelle che servono più presto a corrompere le industrie civili, che ad avvantaggiarle, come locande, osterie, e più o meno onesti instituti, ed anco disonesti addirittura, e turpissimi; il sapore di siffatte industrie noi sopra gli altri conosciamo in Toscana, dove un dì concorrevano forestieri a portarci i vizi, ed i catarri loro. Compensi chiederanno i Piemontesi certamente, ed anco non li chiedendo li meritano, nè sembra arduo accordarli, conciossiachè paia non pure utile ma necessario convertirla in gagliardo arnese di guerra per opporla in ogni caso a qualunque irrompesse giù dalle Alpi nemico; e questo a cagione della scoperta fatta dal Conte di Cavour quando orava in Parlamento per cedere Nizza e Savoia, la quale fu che i paesi si difendono meglio allo aperto in pianura, che non per le angustie delle forre, o dalle alture… anco di queste a noi toccò udire! Nè udire soltanto, ma lodare con plausi, e confermare coi voti! Reverenza dunque, gratitudine, e compensi al popolo piemontese, e a Torino; fratello sia, e sopra tutti onorato, come quello, ch’ebbe la ventura di affaticarsi sopra gli altri per la Patria, e per la Libertà; non signore, non sopracciò, nè egemone: in questo intorandosi perderebbe ogni merito, porrebbe a cimento la salute pubblica, e risoluti non lo patiremmo noi opponendo le nostre forze, fin quì insuperate, di repulsa alle invaditrici sue; e perchè cessi il sospetto in noi, l’uzzolo in lui, in entrambi lo screzio della male auriosa egemonìa urge stabilire il nostro regno a Roma.

      Senza capitale un grande stato non può stare unito; ella ha da essere come un cappio il quale senza stringere troppo, o stringere a casaccio ordini le forze del paese per la difesa prima, e poi per la massima prosperità interna accordandole armonicamente sia dove tendono ad assimilarsi, sia nello invincibile screzio.

      Veramente io non ho letto la storia di Gengis-kan, la quale pure fu raccolta circa tre quarti di secolo dopo la morte di lui, ma l’avessi pur letta io porrei mediocrissima fede alle quarantamila, o cinquantamila teste gittate nei fondamenti di Samarcanda come pietra angolare a costituirla capitale; che ferocissimo ei fosse non si contrasta, ma sagace altresì era molto, tanto che il Gibbon ebbe a trovare non poca corrispondenza tra il codice composto dal Locke per la Carolina, e quello di Gengis-kan! Ad ogni modo io credo, che cotesto si abbia, se successe, intendere per simbolo, che molti voleri, come molti interessi devano concorrere a stabilire le nuove capitali, e che questi interessi devano recidersi del tutto da interessi antichi. Napoleone Imperatore giudicava la Italia poco acconcia a comporre un corpo solo a cagione della sua lunghezza, e questo suo concetto prima e dopo lui parteciparono parecchi; tuttavia discorrendo dei luoghi adattati per instituire la capitale del nobile stato così argomenta:

      «Vari i pareri degli uomini intorno la migliore giacitura della capitale d’Italia, che taluno accenna a Venezia imperciocchè supremo bisogno della Italia paja levarsi a potentato marittimo. Venezia, essi dicono, sta riparata dai subitanei assalti, e favellando a mo› di mercante, deposito dei commerci della Germania orientale e punto più prossimo di Genova a Milano e a Torino; al mare si accosta per tratti lunghissimi di sponde: altri poi vengono dalla storia, e dalle tradizioni antiche condotti a Roma; Roma, affermano, sopra tutto mediana, destra alle tre grandi isole Sicilia, Sardegna, e Corsica, destra a Napoli; per ogni parte a un dipresso equidistante da cui la voglia offendere, o lo inimico si presenti dal lato di Francia, o dalla Svizzera, ovvero dall›Austria, che dove si accosta più distà centoventi, e dove meno centoquaranta miglia, ed ancorchè superate le Alpi la schermiscono due validissimi ripari il Po, e gli Appennini. Roma prossima alle coste adriatiche, e mediterranee con risparmio non meno che con velocità per via di Venezia e di Ancona può sovvenire alla tutela delle frontiere dell›Isonzo, e dell›Adige: per via poi del Tevere, di Genova e di Villafranca ella provvede di leggeri alla frontiera del Varo, e delle Alpi cozie: la sua posizione felice le concede abilità di offendere, mediante l’Adriatico, ed il Mediterraneo l’esercito nemico, il quale si attentasse traghettare il Po, od avventurarsi nell’Appennino senza avere preso la sua sicurtà dal lato del mare; ad ogni evento agevolissimo scansare alle rapine del nemico vincitore i tesori di Roma a Napoli, ovvero a Taranto; finalmente Roma è già: nè si conosce città al mondo la quale offra comodi quanti essa per costituire una grande metropoli; in favore suo la magnificenza e la nobiltà del nome; ed io per me penso, che quantunque lasci a desiderare qualche cosa, ella sarà certamente la capitale che gl’Italiani eleggeranno un giorno.»

      Questo nel volume terzo delle sue Memorie; nè meno arguto nei Ricordi di Santa Elena: «Se la Italia cessasse con Parma, Piacenza, e Guastalla, o vogliamo dire, ch’ella circoscritta dentro la valle del Po non possedesse penisole, allora Milano sarebbe la sua capitale necessaria, comecchè i periti reputino supremo difetto per lei che il Po non la difenda dalle ingiurie tedesche: ma dove gl’Italiani si componessero in un popolo solo allora Milano non potrebbe pretendere a diventare capitale, imperciocchè troppo prossima alle invasioni terrestri si troverebbe troppo lontana dalle spiaggie per provvedere alle marittime.»

      E quì nota lettore, che quando il sempre mai funesto ministro d’Italia Cammillo di Cavour non che non vietasse, consegnava le Alpi alla Francia avvertendo io, che dove questo accadesse bisognava pensare a trasferire altrove la capitale, molto più che smantellata la cittadella, Torino, e il Parlamento correvano pericolo di assaggiare le prime bombe francesi, ciò fu argomento di dileggio pel gregge servile: ora se Napoleone, il quale se ne intendeva, non consentiva a Milano di essere capitale d’Italia, pensa tu se lo avrebbe conceduto a Torino nella condizione miserabile in che l’hanno posta il savio Conte, e il suo più savio armento, che i ministri successivi si sono vie vie consegnato come le stime vive di un podere sfruttato, e tuttavia dura salvo dalla epizotia.

      Napoleone continuando a ragionare intorno alle diverse possibili capitali d’Italia arroge:

      «Bologna, unita in un solo corpo la Italia, sarebbe da preferirsi a Milano, dacchè ov’ella in caso d’invasione terrestre vedesse superate le frontiere montane, avrebbe sempre la difesa del Po, e pel suo sito, per le strade, e pei canali agevolmente, e presto comunica col Po, Livorno, Civitavecchia, i porti di Romagna, Ancona, e Venezia; come pure assai più di Milano si avvicina a Napoli.

      «E se la Italia terminasse col regno di Napoli, ed una parte di Sicilia, e di Napoli potesse riempire lo spazio fra terraferma e la Corsica, allora Firenze come centralissima potrebbe costituirsi meritamente capitale.»

      Donde tu apprendi chiaro, che al pensiero del gran Capitano non si affacciasse mai per capitale Torino. Che se l›autorità di un tanto uomo avesse mestieri di un po› di rincalzo io ci aggiungerei quella di Ubaldino Peruzzi, il quale ci ammaestrò da Torino non potersi governare la Italia, là dove questo personaggio non si fosse smentito dichiarando potersi governare la Italia da Torino finchè non si conseguisse per capitale Roma; e questo parve contradizione, conciossiachè se non può reggersi la Italia da Torino in modo assoluto, molto meno (anzi la difficoltà cresce) non avendo Roma, o standoci contraria: tuttavia queste che paiono a noi contradizioni, potrebbe darsi, che fossero profondità di consiglio a cui il nostro corto intelletto non arriva.

      Napoleone ai giorni nostri tanto più avrebbe a preferire Roma per capitale d›Italia quanto che adesso con


Скачать книгу