Lo assedio di Roma. Francesco Domenico Guerrazzi

Lo assedio di Roma - Francesco Domenico Guerrazzi


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alberi per la molta povertà, del paese non tanto causata poi in effetto dalle lunghe guerre, e continue, che ha avute, quanto da una naturale viltà e dappocaggine di quei popoli; la quale ancora è causa, che con tutto che pei tanti anni continui sieno stati nudriti ed allevati nelle guerre, non sono però al giudizio di molti, da essere tenuti per molto atti allo esercizio delle anni per non dire, che sieno inettissimi a quello

      Questa relazione del Morosini va copiosa mirabilmente di notizie intorno alla milizia del Piemonte; chi ne abbia talento (e lo dovrebbe avere, ma ne dubito, perchè la gioventù in mal punto oggi si mostra aliena dagli studi, massime storici) può esaminarla intera; al mio assunto giova cavarne questo altro tratto: «ha il signor duca, oltre alli presidi, una milizia di 16000 fanti bene armata sotto quaranta insegne, le quali prima erano 66, ma sono state questo anno ridotte al numero di quaranta, a fine di scansare le spese dei capitani, e degli officiali di 26 compagnie; e li fanti sono stati distribuiti in modo, che in ogni bandiera saranno 400 fanti, e sua eccellenza viene ad avere avanzato 5200 scudi all’anno. Queste genti sono al governo di 42 gentiluomini, tutti suoi vassalli, salvo che uno, ch’è il signor Guido Piovene suddito della serenità vostra e gentiluomo vicentino...... Questi tutti hanno nome di colonnelli e sono stipendiati diversamente l’uno dall’altro, avendo chi più, chi meno secondo la inclinazione di sua eccellenza. Questa gente, come ho detto di sopra, non è molto atta allo esercizio delle armi, salvo, che certa poca quantità verso Fossano, e il Mondovì, li quali per essere tra loro stessi in perpetua gara riescono più esperti, e pronti a menare le mani, che gli altri; ma quanto più sono buoni allo esercizio delle armi tanto più sono fastidiosi, ed insolenti ad essere governati, e disciplinati. Fa usare sua eccellenza molta diligenza per tenere bene disciplinata questa milizia facendo mostre spessissimo, alle quali molte volte si trova di persona sperando pure con questo frequente esercizio doverle levare da quella naturale pigrizia, che hanno; ma difficilmente credo, che vi riuscirà essendo più forte la natura, che l’arte

      Da principio Emanuele Filiberto pare, che facesse capitale sopra i popoli di Savoia, sicchè Sigismondo Cavalli racconta egli avere, per lo scopo di assicurare i stati, «principiato a fare le cernide, ovvero ordinanze dei suoi popoli, ed obbligare ogni comune a dare tanti corsaletti, picche, archibugi, e morioni; e già quelli della valle di Aosta debbon essere in buono stato, perchè quando sua eccellenza passò di là, tornando di Savoia, volle vederne la mostra, la quale riuscì assai bene» Senonchè Francesco Molino dopo dieci anni nel 1574 referendo al Senato così favella di cotesta medesima milizia: «i popoli che abitano la Savoia sono per lo più timidi, e vili: non si danno ad alcuno esercizio, e nè tampoco a quello delle armi, e fecero vedere questa poca inclinazione alloraquando il duca ordinò una milizia, per la quale avendo speso più di seimila scudi in arme, in poco tempo fu ritrovato, che dei morioni, e corsaletti se n’erano serviti a fare delle pignatte e degli spiedi.» e comecchè poco più innanzi afferma i popoli del Piemonte più atti ad adoperarsi, più capaci di disciplina, o più industriosi dei Savoini, non si sa bene con coteste premesse s’egli intenda più avvilirli ovvero commendarli.

      Nè gli scrittori piemontesi negano questo; al contrario facilmente confessano, che sul cominciare del secolo decimosesto il difetto di coltura non era compensato con la gloria delle armi, le quali erano misere ed incerte; e la difesa dello stato non usciva già dalla copia, nè dalla prodezza delle milizie paesane, bensì dal danaro proprio, e dall’avarizia altrui.

      Ma non è vero, che negli altri stati d’Italia si procedesse a quel modo; anzi il vero è al contrario, nè gli stessi Scrittori piemontesi lo ignorano, dacchè lo stesso Ricotti nella Storia delle Compagnie di ventura in Italia ci attesti Firenze e Orvieto fino dal 1350 avere istituito i balestrieri del contado per affrancarsi dalla infamia della milizia mercenaria; e Venezia più tardi con l’ordinamento delle cerne; ed altri altrove; ma più che tutti da capo Firenze la quale a’ conforti di Antonio Giacomino Tebalduccio, e di Niccolò Macchiavelli instituì nel 1506 la ordinanza della milizia fiorentina con le prescrizioni, e norme che si leggono per le storie, e da prima furono diecimila nel contado di Firenze solamente fanti, sei anni dopo si fecero anco cavalli nel numero di 500. Questa abolita dalla tirannide dei Medici, ecco Giovanni dalle Bande nere formare la stupenda milizia di cui la memoria ancora non langue, e sicuramente coll’occulto concetto di stabilirla arnese per acquistare gagliardo stato in Italia, e difenderlo contro ogni straniera soperchieria; da questa onorata scuola, cessata la tirannide medicea, risorsero le milizie fiorentine, e furono spartite in milizie del contado disposte in trenta battaglie, ed in milizie di città in quattro bande una per quartiere, ed ogni banda in quattro compagnie con sedici gonfaloni in tutto; da prima cavaronsi dagli uomini di diciotto fino a trentasei anni, e se n’ebbe un tremila all’incirca, ma forse più che meno nella sola città; più tardi si presero da diciotto fino a cinquantacinque anni, e in tutto se n’ebbe un cinquemila. – Nella vita di Francesco Ferruccio mi sono ingegnato quanto meglio ho potuto discorrere di questa gloriosa milizia, la quale non si mostrava come apparivano i soldati piemontesi allora pigri, grossieri, contennendi, e vili bensì tali che il Ricotti medesimo confessa: «colla modestia, e con la esattezza sia nel comandare sia nell’obbedire, con la perizia delle mosse, con la ricchezza delle vesti, e delle armi, non meno che con la concordia, ed unione diventò in breve soggetto di maraviglia ai più vecchi soldati.» Nè per questo solo ella fu maraviglia ai presenti, ed onorata memoria ai futuri, bensì per ferocia di magnanimi propositi, e per valore inclito.

      Io non riporterò la testimonianza di scrittori fiorentini come quelli i quali si potrebbe per avventura supporre che procedessero parzialmente, ma sì di Carlo Capello oratore veneziano del pari che degli altri dei quali mi valsi per giudicare la qualità delle armi piemontesi; costui pertanto, scrivendo al serenissimo Doge gli afferma: «tuttavia non si perdono di animo e sempre con maggiore costanza si confermano in volere ovvero conseguire la libertà, ovvero portarsi di sorte, che se la perdono, speso, e consumato tutto l’avere loro non vi sopravviva alcuno, e solamente si dica: qui fu Firenze. «E quanto più il pericolo stringe tanto maggiormente s’intorano a mettersi ad ogni sbaraglio. «Tanta, scrive il medesimo oratore il 14 Luglio 1530, è la costanza degli animi di ciascuno, tanto indurata la ostinazione di volere liberarsi che hanno deliberato pubblicamente patire ogni estremità, e subito, che il Ferruccio si scopra… uscire della città con tutta la gente di guerra e con quelli della milizia cittadina, e combattere e così vincere ovvero insieme con la vita perdere il tutto avendo determinato, che quelli che resteranno alla custodia delle porte, e dei ripari, se per caso avverso la gente della città fosse rotta abbiano con le mani loro ad uccidere le donne ed i figliuoli, e por fuoco alle case, e poi uscire alla stessa fortuna degli altri, acciocchè, distrutta la città, non vi resti se non la memoria della grandezza degli animi di quella, e che sieno d’immortale esempio a coloro, che sono nati, e desiderano di vivere liberamente.»

      Che se questa deliberazione, la quale non ha riscontro nelle storie, tranne nella giudaica, dove gli Ebrei difesero Gerusalemme da Tito imperatore menzogna di umanità, non sortì il suo effetto, il mondo lo sa, vuolsi attribuire alla codarda avarizia degli Ottimati, i quali allora adoperavano come la setta dei Moderati adesso, e al tradimento di Malatesta, il quale, come disse Matteo Dandolo allo ambasciatore del Duca di Urbino: – ha venduto quel popolo, e quella città, e il sangue di quei poveri cittadini, a oncia, a oncia.

      Dopo cotesta epoca illustre, e lacrimevole non vale, per opinione mia, il pregio ricordare milizia italiana: entriamo nei tempi in cui il Filicaia lanciò nella serva Italia i due sonetti pari a due gridi di dolore, che c’introneranno perpetuo gli orecchi, finchè ella non sia tutta sgombra dagli stranieri.

      – … Del non tuo ferro cinta

      Pugnar col braccio di straniere genti

      Per servir sempre o vincitrice, o vinta:

      Quando la Francia si avventò alle alpi repubblicana in vista, ladra in fatti e tiranna, i Piemontesi o soli, o in compagnia degli Austriaci davvero mala prova fecero, nè possono cavarne argomento ad esercitare egemonìa.

      Nel 1848 le armi piemontesi sembra che avessero virtù finchè mantennero l’ardore di che l’avevano arroventate lo entusiasmo popolare, e l’ira; poi giù giù illanguidiscono, e disperdonsi nello sbandamento più che battaglia, ed anco rotta di Custoza. – Nel 1849 Novara.

      E


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