Novelle umoristiche. Albertazzi Adolfo
aggiunse: – Sfido! Non ne aveva nemmeno da pagare i debiti di gioco. A me, mi doveva le ultime tre partite che gli ho vinte a biliardo.
Ah cane! ah vigliacco! Che voluttà arrivargli addosso con un paio di schiaffi da rovesciarlo e dirgli: – Eccoti la paga delle tre partite, questurino mentitore! – Invece, no, non poteva muoversi; doveva restar lì rannicchiato nella paglia! «Mentitore infame!» Una delle partite, ne aveva vinta: una sola! per caso! «T'insegnerei io a calunniare i morti!»
Di nuovo l'amico s'interruppe a chiedere:
– Niente?
Silenzio. Quando risposero, ripeterono:
– Niente!
Il delegato ripigliava:
– In fondo, però, era un buon diavolo. Ebbe il torto di dar retta ai giornalisti, che per quattro pezzi rubati qua e là e cuciti insieme alla meglio, gli avevano fatto credere che diventerebbe un Mascagni!
Gridarono: – Non c'è!
Non ci poteva essere: Bonarca già si era ricordato che al mulino del canal Torbo si pescavano i cadaveri degli annegati. Coloro che gridavano non c'è erano senza dubbio i suoi becchini.
– Cercate ancora! Cercate!
Il brigadiere frattanto preferiva la Cavalleria Rusticana al Nabucco e stancava vieppiù il delegato; il quale propose:
– Se andassimo a sedere qui dentro?
Parve a Bonarca che il pertugio dell'abitacolo si oscurasse all'interporsi d'una faccia e si sentì, con un brivido, perduto. Ma il brigadiere sconsigliava:
– Non sente che tanfo?
E i tre si mossero verso i ricercatori; lasciando il misero in una disperazione così grave e violenta che fu per fracassarsi la testa su la macina. Certo si sarebbe impiccato se si fosse sovvenuto della cinghia con cui usava reggersi i calzoni.
Ma in verità era un dilemma atroce: egli avrebbe dovuto vivere per dimostrare che tutti i calunniatori, come quell'amico infame, avevan torto e che avevano ragione i giornalisti; e vivere non poteva senza meritarsi il disprezzo universale!
Quando, poco dopo, coloro tornarono indietro.
… – Vuol scommettere che invece d'annegarsi è scappato anche lui?
– Non credo. Non era uno da farcela così da furbo. Dite piuttosto che si sarà buttato giù, con una pietra al collo, in altro sito, per non essere pescato. Del coraggio ne aveva…
Meno male!
– Andiamo, ragazzi! – E i ragazzi – i becchini – trascorsero anch'essi. Uno sbadigliò:
– M'è venuto appetito.
… Indi a poco, per finirla, Bonarca uscì di soppiatto; si diresse non alla parte del borro pieno e profondo, perchè i manigoldi avrebbero forse udito il tonfo, ma alla parte dove per l'acquitrino o per lo scolare di poc'acqua, imputridiva una gora. Ivi non era possibile annegarsi. Se non che ci si affoga anche nel pantano. E d'un salto, deciso com'era, vi balzò.
Giù… giù… Nera e fetida l'acqua gli affluì intorno, alla superficie; e sotto, adagio adagio, i piedi, e poi i polpacci, e poi i ginocchi, e poi le coscie erano invischiate, impeciate, prese, strette dalla tenace poltiglia. Giù… giù…
Egli tendeva gli occhi ai manigoldi che se n'andavano per l'argine opposto. Nè poteva fermarsi: se avesse voluto, non avrebbe avuto ramo o tronco a cui aggrapparsi; nè i piedi incontravano sasso o fondo sodo. Che morte!
Giù… sebbene più piano; giù… Gli premeva il ventre quel brago in cui forse pascevano i più schifosi vermi; gli fasciava lo stomaco; gli saliva al petto. Oh Dio!; nè si fermava. Al petto! aveva la pegola al petto! Gli toglieva oramai il respiro; e se gli arrivava alla gola, alla bocca…
Che orribile morte! E ancora giù, adagio adagio… Maledetta la Sposa selvaggia!.. Addio, Elena (la maritata)! Addio, Teresa (la nubile)! addio, Lilì, per sempre!
Non si fermava ancora… Ancora?
Quando gli parve d'aver toccato fondo, chiuse gli occhi per non vedere la sua morte, così. Ma a voce alta emise il grido degli estremi spiriti:
– Oh Dio!
Non chiedeva aiuto, lui! Nè fu udito. Infatti, non voleva morire?
Più forte gemettero gli spiriti vitali: – Diooò oh! E fu un urlo che finì in modo straziante; atroce, acuto, lungo. Egli però non capiva più nulla. Non volle capire più nulla. Finchè con l'aiuto di Dio, dopo un secolo…
– È lui! Corriamo!
– È Bonarca!
– Là! presto! affoga! – Correvano.
– È lui! Chi sa da quante ore!
– È già spacciato! – Arrivavano.
– No; non vedete? Muove la testa come una galana…
– Una corda… Le pertiche!
– Maestro! maestro!
Senza dir nulla egli intravvedeva a pochi metri il delegato, i carabinieri, i becchini; e udiva battere il suo cuore, ton, ton, ton, a grande velocità.
– S'attacchi!
– S'attacchi alla pertica!
– Attáccati, amico!
– Forza!
– Coraggio, caro maestro!
Niun dubbio che per essere salvo gli sarebbe bastato afferrarsi alle pertiche. Ma non voleva morire?
– Coraggio! – Forza! – Bravo!
– Tira!
– Viene!
Salvo? Non doveva morire? Sì, ma che colpa n'ebbe lui?
Gli spiriti vitali si aggrapparono essi a quelle pertiche. Alle pertiche, prima; poscia a quelle braccia. Egli si lasciò trascinare e afferrare…
E salvo, ma svenendo davvero nelle braccia dell'amico, balbettò:
– Lasciatemi morire…
La giocatrice
I
Con un semplicissimo ragionamento, e chiarissimo, Gianni Limosa avrebbe dovuto convincersi che il suo affetto non escluderebbe mai dal cuore di Claudia Verbani l'affetto delle carte; che Claudia giocatrice – eppure così bella, così giovane, così vedova! – non aveva, nè avrebbe mai più, tempo, voglia, affanni d'amore.
Il ragionamento chiarissimo e semplicissimo sarebbe dovuto esser questo: L'uomo può dedicarsi con le sue energie a più vizi in una volta; dove la donna, con le energie sue, non si dà quasi sempre che a uno solo, e con l'anima sua in uno solo raccoglie, smarrisce tutta sè stessa. Ma ogni vizio è una passione; e come, da che mondo è mondo, la donna ebbe taccia d'incostante in amore, l'amore per la donna o non è una passione, e quindi non è un vizio, o tutt'al più è passione non intensa e profonda quanto un vizio: per esempio, il gioco.
Se non che Limosa invece d'essere un filosofo era uno sportman innamorato; perciò non è meraviglia ragionasse, o meglio, sragionasse così: «Questa donna, che è una signora eccezionale, io l'amo alla follia e con buone intenzioni: per forza; perchè è onesta; e la sposerei anche. Disgraziatamente essa non mi ama perchè ha un vizio. Un vizio? Sì: come Luisella la mia puledra… Luisella adombrava al passaggio del treno o d'una bicicletta, e balzava o scappava o voltava indietro; sudava tutta; tremava; e guai se gliel'avessi data vinta! Io, traendola alla ferrovia e facendola sorprendere incontro, dietro o di fianco, con una bicicletta, e intanto frenandola e frustandola a mio modo, l'ho domata che è diventata un'agnellina. Ma Luisella è una cavalla, e Claudia una signora. Per questa dunque mi atterrò a un metodo affatto contrario.»
Ora, la fallacia del ragionamento apparisce manifesta nel credere che per essere Luisella una bestia e Claudia una donna, l'una ragionevole e l'altra no, patissero o peccassero