Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II. Amari Michele
dei rimagnenti: onde li uccise tutti;118 e tolse paggi negri in luogo dei bianchi; e non tardò a fare sgombero anche di quelli, l'anno dugento ottantotto (900).119 Ma nel lungo suo regno i domestici eccidii sovente si rinnovarono e cominciaron prima della tirannide di fuori; bastando l'ira ad aizzarlo quanto il sospetto, e quanto l'uno e l'altra la gelosia. Aveva egli vietato sotto pene severe la vendita del vino a Kairewân; la tollerava a Rakkâda120 in grazia forse dei suoi stanziali; e beveva egli stesso senza scrupolo nei penetrali dello harem. Or accadde che fattosi mescer vino da una donna, nei primi credo io del regno, e datole a tenere il fazzoletto di seta con che si asciugava le labbra, colei lasciosselo cader di mano, e un eunuco il trovò e nascose. Ibrahim non sapendo qual fosse costui, tutti i trecento eunuchi che avea fe' morire,121 per seppellir forse con loro il segreto della regia intemperanza. Diversa cagione ebbe la morte di sessanta sciagurati giovanetti ch'ei teneasi in palagio, e, calpestando più d'uno dei precetti di sua religione, ogni sera lor dava a ber vino, e poi non volea che troppo dimesticamente vivesser tra loro. Avutane spia, chiamolli dinanzi a sè; interrogolli, e confessando alcuni il fallo, e negandolo tra gli altri audacemente un fanciullo molto amato da lui, Ibrahim gli spezzò il cranio con una mazza di ferro: gli altri fece morire a cinque o sei il dì, tra soffocati nella stufa e arsi nella fornace del bagno.122
Nè men geloso in punto di religione, aggravò la vergogna degli dsimmi, come se non bastassero al suo zelo i segni esteriori di vassallaggio che si costumavano innanzi.123 Comandò Ibrahim che portassero su le spalle una toppa bianca, con la figura, i Giudei d'una scimmia e i Cristiani d'un maiale; e che gli stessi animali si dipingessero in tavole confitte su le porte di lor case.124 Il martirio ch'ei diè ai quattro Siracusani si è narrato di sopra, su la fede delle agiografie cristiane.125 Non sappiam se sia dei martiri siracusani un Sewâda, di cui scrivon le cronache musulmane che proffertogli l'oficio di direttore della tassa fondiaria, se rinnegasse, e rispondendo egli che non barattava la fede, Ibrahim lo fece spaccare in due e sospender mezzo cadavere a un palo, mezzo ad un altro, l'anno dugentosettantotto dell'egira (891-892).126 Tuttavia gli eretici dell'islamismo poteano invidiare la condizione de' Cristiani. Dopo le stragi d'una battaglia, vinta sopra la tribù berbera di Nefûsa, l'anno dugentottantaquattro (897-898), Ibrahim interrogò un dottore che si trovava tra i prigioni: “Che pensi di Alì?” “Era infedele e però sta in inferno; e chi non dice così, andravvi con lui,” rispose il prigione; scoprendosi Kharegita a questo parlare. Il tiranno allora gli domandava se tutta la tribù di Nefûsa tenesse tal credenza, e saputo di sì, ringraziava il Cielo d'averne fatto macello. I prigioni, ch'eran cinquecento, se li fece recare innanzi a uno a uno: egli assiso in alto, tenendo in mano un suo lanciotto, cercava con la punta sotto l'ascella ove fosse il vano tra costola e costola dell'uomo,127 e poi data una spinta, andava a trovar dritto il cuore, e facea passare un altro, finchè tutti gli trafisse. Così il Nowairi.128 L'autore del Baiân scrive che i prigioni fossero trecento, ch'ei ne avesse fatto spacciar uno e poi trattogli il cuor con le proprie mani, e fattolo trarre agli altri, infilzati in una funicella i trecento cuori, e sospesi a festone su la porta di Tunisi.129 Ambo le tradizioni bene stanno ad Ibrahim-ibn-Ahmed, e possono ammettersi insieme.
Innanzi tal pia scelleratezza, era ito Ibrahim a Tripoli (896-897), governata per lui da un suo cugin carnale, Mohammed-ibn-Ziadet-Allah, uomo di egregii costumi, erudito, poeta e scrittore d'una storia di casa aghlabita: onde il tiranno ignorante l'invidiava fin dalla gioventù, ma adoperavale per averne bisogno. Il coperto odio divampò, quando il califo abbassida Mo'tadhed, risapendo le enormezze di Tunis, minacciò in parole, e secondo altri scrisse a dirittura a Ibrahim, ch'ei lo avrebbe deposto, e surrogatogli il cugino, specchio di virtù. Pertanto non contentossi Ibrahim d'ucciderlo; ma volle fosse appiccato il cadavere a un palo come di malfattore.130 Somiglianti sospetti di Stato lo spinsero, prima e poi, a mandare a morte ciambellani, ministri, cortigiani, e un povero segretario, chiuso vivo nel feretro. Otto fratelli suoi proprii erano scannati al suo cospetto; un de' quali, obeso e infermo che non potea reggersi, implorava gli si lasciassero quei pochi giorni di vita; e Ibrahim rispose: “Non fo eccezioni;” e accennò il carnefice di percuotere. Abu-l-Aghlab suo figlio ebbe tronco il capo dinanzi a lui; dicesi per trame di Stato. Abd-Allah, maggior tra i figliuoli, erede presuntivo della corona, folgor di guerra che spezzava nei campi di battaglia i viluppi creati dalla tirannide del padre, Abd-Allah ubbidiente troppo, virtuoso, dotto, modesto, pur si sentiva ad ogni istante sul collo la scimitarra del carnefice.131
Inviperiva Ibrahim ogni dì più che l'altro; ciascun misfatto tirandosene dietro parecchi; incarnandosi ogni vizio con l'uso e con la età; aggravandosi in lui l'atrabile, la monomania, la causa qual si fosse che lo portava al sangue; su la quale decida chi mai arriverà a penetrare l'arcano della umana volontà. Chi raccoglie i fatti, noterà due sintomi atrocissimi. L'un che costui nelle vittime segnalate per la costanza dell'animo, ricercava rabidamente il cuore, sede del pensiero secondo gli Arabi; quasi il tiranno volesse dar di piglio alla causa materiale di lor contumacia. Il disse ei medesimo a San Procopio vescovo di Taormina, mandandolo al supplizio (902).132 Parecchi anni innanzi avea notomizzato il cuore di un altro valoroso, Ibn-Semsâma, suo primo ministro; il quale straziato di cinquecento battiture, non avea detto un ahi, nè s'era mosso; e a ciò, comandando Ibrahim di ucciderlo, s'era vantato di aprire e chiuder la mano tre fiate dopo recisogli il capo, e avea tenuto parola.133
L'altra orribilità mi sembra un'avversione, un dispetto, un'invidia ch'ei sentisse della perpetuità della umana schiatta. Non dirò delle mogli e concubine che facea strangolare, murar vive, sparar loro il corpo, se incinte: e tuttociò senza lor colpa, forse senza gelosia. Lungo tempo così era vissuto, non parlando a donne fuorchè la madre, la Sîda che è a dir “Signora” come chiamavanla a corte. Costei, cercando ridurlo ad alcun sentimento umano, un dì che le parve di umor men tetro, gli appresentò due leggiadre donzelle, alle quali fe' recitare il Corano e cantar versi su la chitarra e il liuto. A che parendo si compiacesse il tiranno, rallegrato anco dal vino, la madre gli offrì in dono le due schiave; ei le accettò, e lo seguirono. Ed entro un'ora veniva alla Sîda lo schiavo fidato d'Ibrahim con una cesta ricoperta di ricco drappo. Trovò le due teste; e, gittando un grido, cadde svenuta; ma tornata in sè, le prime parole che profferì furono maledizioni sopra il figliuolo. Pur era serbata a veder maggiore empietà. Avea comandato Ibrahim di mettere a morte ogni figliuola che gli nascesse; e talvolta non avea aspettato che venissero alla luce. E la Sîda pur osava trafugare e far nudrire occultamente le bambine. Nell'età matura del figliuolo, coltolo un'altra fiata in velleità di clemenza, si provò a mostrargli le fanciulle cresciute come lune di bellezza, dice la cronica; e credette aver vinto quando gliele sentì lodare. Si fa allora più ardita; gli svela che son sua prole; gli rassegna i nomi loro e delle madri. Il tiranno uscì dalla stanza. Chiamato un suo negro “Meimûn,” dissegli, “arrecami le teste delle donzelle che tien la Sîda.” Il carnefice non si movea. “Obbedisci, sciagurato schiavo,” ripigliava Ibrahim, “o ti farò andare innanzi, ed esse dopo.” E Meimûn tornò poco stante, avvolgendosi alle mani le sanguinose chiome di sedici teste, e le gettò a mucchio sul pavimento.134 La critica non può mettere in forse coteste orribilità. Ancorchè noi le tenghiamo di seconda mano, è evidente la veracità degli scrittori primitivi, cittadini del Kairewân o d'Affrica al certo, e concordi tra loro, non avversi punto a casa aghlabita, vissuti in tempi vicinissimi e di cultura letteraria. D'altronde i misfatti narrati ben s'attagliano l'uno all'altro; e molti particolari che rivelano quell'istinto d'uom tigre, sono ricordati quasi con le medesime parole dai Musulmani e dai Cristiani, tra i quali il diligentissimo contemporaneo Giovanni, diacono napoletano.
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119
Confrontinsi: il
120
Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiat. di Parigi, fog. 33 recto.
121
Confrontinsi: il
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123
Veggasi il Libro II, cap. XII, p. 476.
124
125
Libro II, cap. XII, p. 511.
126
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Mi discosto in questo passo dalla versione di M. De Slane.
128
Op. cit., pag. 430.
129
130
Confrontinsi: Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 35 recto;
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Confrontinsi: il
Ibn-el-Athîr, risoluto a lodarlo come principe forte e sostegno dell'islamismo, salta a piè pari tatti quei misfatti, e narra solo i principii del regno e la morte di Ibrahim; pur si lascia sfuggir dalla penna che l'eroe Abu-l-Abbas vivea in continuo terrore della “maligna indole del padre.” MS. A, tomo II, fog. 92 e 172; MS. C, tomo IV, fog. 246 verso, e 279 recto, anni 261 e 289.
132
Veggasi in questo medesimo Libro II cap. IV.
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Confrontinsi il