Ettore Fieramosca: ossia, La disfida di Barletta. Massimo d' Azeglio

Ettore Fieramosca: ossia, La disfida di Barletta - Massimo d' Azeglio


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la porpora, s'era buttato all'armi del tutto, e si dicevano di lui tante gran cose che non si sapea che pensare. Forte dubitai fin d'allora che la Ginevra fosse vagheggiata da costui: e pur troppo mi toccò udirne fra popoli molte sconce parole, ch'io non poteva raffrenare per rispetto di essa, e consumavo dentro la rabbia per non far atto che palesasse la condizion mia.

      Intanto, sotto colore ora d'una, ora d'un'altra cosa, m'era pur venuto fatto d'andarle per casa ad affiatarmi con quel suo marito; e se il vederlo mi dava passione indicibile, soffrivo volentieri ed avrei sofferto ogni gran cosa purchè potessi a quando a quando veder lei, colla quale, dalla prima volta in fuori, non ebbi mai parole d'amore, e già sapevo che sarebbe stato un buttare il fiato, perocchè troppo bene la conoscevo.

      Questo Grajano d'Asti era di que' tali che ne vanno dieci per uscio, nè bello nè brutto, nè buono nè cattivo; assai buon soldato bensì, ma che avrebbe servito il Turco se meglio lo avesse pagato. Le sostanze di Ginevra lo facevano ricco assai bene: e tanto valutava lei quanto si valuta un podere, per la rendita e non per altro.

      Passarono più settimane. La sera potevo veder la Ginevra, chè il marito non aveva nessun sospetto di me; e travagliato dalla sua ferita che molto penava a chiudersi, nè sapendone molto in fatto d'amore, aveva tutt'altri pensieri pel capo; così mi trovavo con lei più spesso di prima.

      Il Valentino frattanto, volendo metter genti insieme per l'impresa di Romagna, fece capitale di Grajano d'Asti che oggimai si trovava presso a poter risalire a cavallo. Seppi come aveva attaccata questa pratica, ed alla prima furono d'accordo. Si fermò tra loro una condotta di venticinque lance, ed al marito di Ginevra parve avere buonissimi patti.

      Una sera venne il duca alla casa di Grajano per istipulare l'accordo, e fu fatto un poco di cenetta, alla quale si trovarono certi prelati francesi ed alcune lance che stavano a spasso, ed intendevano appiccarsi con costui, che accettava ognuno in quel tempo.

      Io parte pensavo offerire i miei servigi per seguire la fortuna di Ginevra con quella di Grajano; pure, non saprei dirti perchè non mi mossi, nè mi trovai con loro quella sera. Andai, ch'era già fatto notte, vagando ne' luoghi più deserti di Roma sempre martellandomi il cervello con mille sospetti, e non potevo liberarmi da certi pensieri, i più strani che avessi mai. Da molti giorni trovavo la Ginevra più sbattuta: e mi pareva tratto tratto di vederle balenar sulla fronte un non so che d'arcano, che studiasse tener celato nel cuore. Passai pure quella notte, Dio sa con che smania. Senti se alle volte il cuore non parla.

      L'indomani vado da lei sulle ventitrè. Quando son presso all'uscio, odo in casa un bisbiglio insolito: usciva un frate d'Araceli col Bambino,6 ed un torchietto davanti. Salto in casa (sudavo freddo!) e la fante mi dice: Madonna sta in termine di morte.

      La sera innanzi, dopo cena, era stata colta da uno sfinimento, ma non pareva male d'importanza. Posta a letto e confortata con panni caldi, si quietò, e così rimase sino alla mattina. Il sole era già alto e non si sentiva. Venne un tal maestro Jacopo da Montebuono che s'impacciava di medicina, e la trovò quasi fredda. Quello sciagurato, invece di por mano a tutti gli argomenti più gagliardi, se la passò con qualche parola dicendo fosse lasciata in riposo. Tornato poi sul tardi, si sbigottì, e gridando ch'era spacciata, fe' correr pel prete, e senza trovar strada a soccorrerla nè a vincere questo suo inesplicabile male, poco dopo l'avemaria, la sconsolata famiglia udì dalla bocca stessa del medico che era passata.

      Gli alloggiamenti di Francia comparvero in questa, ed Ettore dovette interrompere il suo racconto. Si fece avanti il trombetta sonando, e gli uscì incontro un soldato a cavallo per intendere che cosa cercasse.

      Saputo il motivo della loro venuta, ne avvertì l'ufficiale di guardia in quel luogo, il quale, poich'ebbe vista la lettera che da Consalvo si scriveva al duca di Nemours capitano di quell'esercito, impose a Brancaleone ed a Fieramosca di aspettare che spedisse al duca ad ottener licenza che entrassero in campo.

      Offerì loro intanto una trabacca ove si alloggiava la guardia della porta: ma i due amici, udendo che la stanza del capitano era ancor molto lontana, risolvettero d'aspettar quivi, tanto che il messo fosse tornato con la risposta.

      Ivi presso sorgeva un gruppo di querce, con molt'erba fresca, che protetta dall'ombra offeriva in quell'ore bruciate del mezzo giorno un bellissimo stare. Vi si condussero i due guerrieri, e legati i cavalli agli alberi, si disarmaron la fronte e sedettero uno accanto all'altro appoggiando le spalle a quei tronchi. Una leggiera brezza marina rinfrescava loro il viso; onde l'uno riprese a parlare con nuovo animo, ed all'altro crebbe la voglia di ascoltarlo.

      CAPITOLO QUINTO.

      –

      Fieramosca seguitò il suo racconto con queste parole:

      Perduta Ginevra, il mondo fu finito per me. Uscii di casa cogli occhi stupiditi che non davano una lagrima; e dove andassi, o che cosa fosse di me in quei primi momenti, appena lo potrei dire se non me l'avesser fatto conoscere le cose che accaddero dipoi. Andavo come una cosa balorda, o come succede talvolta, ben sai, quando una mazza ferrata ti percuote sull'elmetto a due mani, che per un poco ti zufolan gli orecchi, e pare che ogni cosa dia volta innanzi agli occhi. Così non sapendo quasi che cosa mi fosse accaduto, passai ponte (la casa della Ginevra era presso Torre di Nona) e su per borgo me ne venni in piazza di San Pietro.

      Quel mio amorevolissimo Franciotto, saputa in parte la mia sventura, mi venne cercando, e mi trovò buttato in terra appiè d'una colonna: in qual modo mi vi trovassi, non lo saprei dire. Sentii due braccia che entrandomi di dietro sotto le ascelle, mi sollevarono e mi posero a sedere. Allora mi riscossi e me lo vidi accanto. Cominciò a confortarmi con amorose parole, e così a poco a poco ritornavo in me. M'ajutò alzarmi, e con gran fatica mi ricondusse a casa; mi spogliò, e fattomi entrar in letto, si pose seduto al capezzale, e se ne stava senza darmi noja di parole o di conforti che troppo sarebbero stati fuor di tempo.

      Passammo così quella notte senza aprir bocca. Mi s'era messa una febbre gagliarda che a momenti mi levava di cervello, e la fantasia alterata mi faceva parere tratto tratto d'avere un'enorme figura tutta carica d'armature, accovacciata sul petto, e mi sentivo affogare.

      Finalmente l'afflitta natura fu soccorsa dal pianto. Sonavano dieci ore in castello, e la prim'alba entrava pel fesso della finestra. Avevo sul capo appiccata al muro la spada e l'altre arme: alzando gli occhi mi venne veduta la tracolla azzurra, che molt'anni prima m'avea dato Ginevra. Quella vista, a guisa di una balestra che scocca, m'aperse la strada alle lagrime, che cominciarono ad uscirmi a torrenti; e questo, sollevandomi il petto, fu cagione ch'io rimanessi in vita. Dopo ch'io ebbi pianto un'ora buona senza mai fermarmi, mi parve d'esser rinato, e potei ascoltare e parlare; e col soccorso del buon Franciotto, venni passando quella giornata, e verso sera mi volli alzare.

      A mano a mano che ritornavo in me, consideravo qual partito dovessi pigliare in tanta calamità: e d'un pensiero in un altro, disperatomi affatto di poter rimanere in vita, e considerando, se mi lasciavo consumar dal dolore oncia a oncia, quanto fosse per riuscirmi insopportabile una tal qualità di morte, risolsi di morire allora per volar dietro a quell'anima benedetta. E così deliberato con me medesimo, mi parve aver fatto un grandissimo guadagno, e mi sentii mezzo racquetato.

      Franciotto, che era stato meco dalla sera innanzi, uscì per veder un momento la bottega, e mi promise di tornar tosto. Io, posto mano alla daga (che è questa appunto ch'io ho accanto) volli far quell'effetto allora allora. Poi ripensato meglio che in quella sera si dovea far la sepoltura alla Ginevra, volli rivederla ancora una volta, e morirle vicino. Vestito così a bardosso, cintomi la spada, e preso l'ultimo mio bene, quella tracolla azzurra, uscii.

      Passato ponte, m'abbattei nel mortorio. Venivano i frati della Regola a due a due, e più compagnie di fratelli cantando il Miserere, prendevano per via Julia e Ponte Sisto, colla bara coperta d'un gran drappo di velluto nero.

      Io, se t'avessi a dire, a questa vista non mi smarrii punto; ma pensando che, se non in vita, in morte almeno saremmo uniti, che eravamo avviati all'istesso viaggio, e che una stessa stanza era per accoglierci ambedue, seguii pieno di funesta gioja e già tutto nel mondo di là, lasciandomi condurre senza badare ove s'andasse. Passato Ponte Sisto per Trastevere, entrammo in Santa Cecilia.

      Deposta la bara in quella sagrestia ov'è l'avello del figlio di Santa


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<p>6</p>

Il bambino d'Araceli creduto miracoloso si porta ai moribondi.