Ettore Fieramosca: ossia, La disfida di Barletta. Massimo d' Azeglio

Ettore Fieramosca: ossia, La disfida di Barletta - Massimo d' Azeglio


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che quando misi il piede alla staffa fossi caduto morto; sarebbe stato men male per lei e per me.

      Mi condussi a Roma sempre maledicendo la mia fortuna, e giunsi in quella, che per una parte entrava re Carlo, e per l'altra i nostri si ritraevano a furia. Vi fu qualche leggiero scontro, ed io tanto mi spinsi avanti fra certi Svizzeri, che fui lasciato per morto con due roncolate nel capo, onde penai gran tempo a guarire.

      Queste ferite le toccai presso Velletri: portato nella terra e medicato, ebbi a star quivi due mesi, senza saper più nulla di Ginevra nè del padre, e solo udivo d'ora in ora le triste novelle del reame che vi giungevano, ed eran fatte dalla gente di casa sempre maggiori, e con tante favole tra mezzo che non potevo in esse distinguere cosa buona.

      Pure alla fine ritornato gagliardo, e volendo uscire di tanto travaglio, montai una mattina a cavallo e me ne venni a Roma. Ivi era un disordine grandissimo; e papa Alessandro che al passaggio del re poco gli s'era mostrato amico, vedendo ora spacciate le cose del reame, e che già della lega fra il Moro ed i Veneziani si bisbigliava, onde ai Francesi conveniva dar volta, stava in sospetto grandissimo ed il meglio che poteva s'armava ed afforzava Roma e 'l castello. Appena scavalcato andai a far riverenza a monsignor Capece, che molto m'accarezzò, e volle in tutti i conti levarmi d'in sull'osteria.

      Intanto cresceva il romore in Roma, ed aspettandosi a giorni la vanguardia del re, composta di Svizzeri, molto si temeva da tutti, ed ognuno pensava a' fatti suoi.

      Comparve alla fine l'esercito. Il papa col Valentino s'era fuggito a Orvieto. Le genti francesi parte s'alloggiarono in città, parte fuori in Prati5; e si comportavano assai bene co' cittadini, tantochè ognuno si veniva rassicurando. Dopo pochi giorni il re andò alla volta di Toscana: pure per Roma passavano tuttavia or l'uno or l'altro di quei capi, conducendosi alla spicciolata, onde fosse minore il disagio delle vettovaglie. Erano oramai quietati i timori, ed ognuno attendeva come il solito alle faccende. Io che sempre dal pensiero di Ginevra era travagliato, appena potei coll'onor mio, mi spiccai da monsignor Capece per tornare a casa, e saper notizie certe di là; chè in tutto questo tempo non m'era venuto fatto di parlare con chi n'avesse contezza.

      Una mattina di buon'ora mi posi in cammino, disposto di cavalcare quel giorno sino a Citerna, e da strada Julia ove stava monsignore, presi per piazza Farnese, drizzandomi verso porta San Giovanni. Sotto il Coliseo mi si fece incontro una truppa di Francesi con bagaglie; e come furon presso, vidi che venivano con una lettiga ove giaceva mal condotto uno de' loro capitani, e dalle fasce che avea attorno alle tempie si capiva che doveva esser ferito nel capo. Mentre scansato il cavallo, m'era soffermato un poco per guardar costui, fui desto da un acuto grido, e, volgendomi a quello vidi Ginevra a cavallo, che dall'altra parte veniva in compagnia con essoloro. Ma oh Dio, quant'era cambiata! Fu un miracolo s'io non caddi in terra: il petto mi scoppiava sotto la corazza: pure avvisando ciò che poteva essere, finsi seguire il mio cammino; poi, voltato il cavallo, senza mai li perder di vista, e pensando al peggio, tenni loro dietro sino all'alloggiamento.

      Ben puoi credere ch'io non fui ardito farmi rivedere a monsignore, che mi credeva già lungi di molte miglia, e tanto meno presentarmi a Ginevra, temendo, s'io le parlavo, udir da lei ciò che mai non avrei sofferto ascoltare; e bramoso pure di chiarire la cosa non sapevo che risolvere. Portato dal cavallo che tendeva a ritornare alle stalle di monsignore, mi trovai in Banchi alla chiavica, presso alla bottega di un tal Franciotto, detto dalla Barca, perchè la professione sua era levar le mercanzie da Ostia per portarle a Ripa grande. Era costui mio amicissimo, e fattomisi incontro, scavalcai, e trattolo da parte, gli dissi che per alcuni rispetti m'ero partito da monsignore, e mi conveniva tenermi celato; perch'egli m'offerse una sua casetta che aveva in borgo, e tosto mi vi condusse. Io presi partito di dirgli: che avevo veduto una donzella della quale conoscevo il casato, con certi Francesi; ed avrei voluto sapere com'era quivi capitata, per porgerle ajuto se fosse stato mestieri: ed insegnatogli il luogo ov'era andata a smontare, lo pregai s'ingegnasse parlare con alcuno de' famigli, e farmi trovare in parte, ove, senza scoprirmi, potessi ottenere il mio desiderio. Egli ch'era di sottile ingegno benissimo seppe contentarmi. Verso mezz'ora di notte venne per me, e mi condusse ad un'osteria, ove trovammo un suo giovane che aveva già uccellato uno degli scudieri di quel barone francese, e fattolo bere, l'avea messo in sul raccontare, ed appunto giungemmo quand'era tempo.

      Franciotto in poche parole lo condusse a dire ciò che mai non avrei voluto sapere: e sul fatto della donna ci narrò che giungendo essi a Capua, e quei di dentro facendo resistenza grandissima, entrarono a forza, e quasi la terra andò a sacco: che il suo padrone Claudio Grajano d'Asti (così ci disse chiamarsi) entrato con molti soldati in casa il conte di Monreale, che ferito nell'assalto, era stato ivi portato e più non poteva difendersi, giunse alla stanza ove giaceva, e la figlia buttandosi in ginocchio, raccomandava sè e 'l padre. Grajano stava in cagnesco, e piuttosto volto al male; onde il conte alzandosi sul gomito il meglio che potè, gli disse: quanto possiedo al mondo sia vostro, ed abbiate in isposa questa mia figlia; ma sia salva l'onestà sua dalle mani di costoro. E Ginevra tremando per la vita del padre e per sè stessa, non si seppe opporre. Due giorni dipoi il conte morì.

      Io mi morsi le mani pensando che se mi fossi trovato colà, forse non cadeva in balìa di questo ribaldo; ma non vi era rimedio. Mi tolsi di quivi, e tutta la notte andai vagando per le strade come forsennato; e più volte fui per finirmi. Per vera virtù di Dio pure mi rattenni. Il dolore, lo struggimento di cuore ch'io provavo era tanto, che le parole non ne saprebbero dire la millesima parte, con certe strette al petto che mi levavan l'anelito, e mi pareva ogni tratto di soffocare: nè potendo sopportar più una vita tanto dolorosa e travagliata formavo i più strani consigli, le più pazze risoluzioni del mondo. Ora divisavo di ammazzare il marito, ora d'incontrar la morte in qualche strano modo, onde mostrare a Ginevra che ero stato condotto a quel passo per amor suo, e mi confortava l'idea del rammarico che n'avrebbe provato; e d'una in un'altra di queste immaginazioni quasi uscivo di cervello. Stato così più giorni, una sera volli tentar la fortuna. Involto nella cappa, ottenebrata la vista, e colla capperuccia che mi scendeva sugli occhi, andai alla porta di lei e bussai. Si fece alla finestra una fante, e domandò chi volevo. – Dite a madonna, risposi, che le vuol parlare uno che vien da Napoli e le porta nuove de' suoi. – Fui messo dentro e lasciato in una saletta terrena con un lumicino che mandava appena un poco d'albore. A me pareva di stare ora presso la porta del paradiso, ora più giù dell'inferno, ed era tanto il contrasto, che mi sentii mancar le ginocchia, e mi convenne lasciarmi andare su una sedia. Aspettai pochi minuti, che a me parvero mill'anni. Quando sentii giù per la scala lo stropiccìo de' piedi e della gonna di Ginevra, quasi mi lasciò affatto ogni virtù vitale. Entrò ella e rimase così un poco discosta guardandomi; ed io, lo crederai? non potei nè parlare, nè muovermi, nè formare una voce: ma appena m'ebbe riconosciuto, gettò un grido, e cadeva in terra svenuta; se non ch'io la raccolsi in braccio, e, slacciandola, m'ingegnai soccorrerla tutto spaventato dall'importanza del caso, e dal timore d'esser quivi trovato: e coll'acqua d'un infrescatojo che era presso, le spruzzavo la fronte. Ma le lagrime bollenti che mi piovevano dagli occhi e le inondavano il volto, furono più possenti e la richiamarono in vita. Io non seppi far altro che prenderle una mano e premervi su le labbra con tal passione, ch'io credetti che l'anima mia passasse in quel punto. Così stemmo un poco: alfine tutta tremante si spiccò da me, e con voce che appena la potevo udire, mi disse: Ettore, se sapessi i miei casi!.. Li so, risposi, li so pur troppo, ed altro non domando, altro non voglio che poterti morir vicino e vederti qualche volta finchè son vivo.

      In questa s'udì rumore al piano di sopra, mi corse un gelo per l'ossa, dubitando d'essere scoperto, e che a lei s'accrescessero i guai. Preso commiato cogli atti più che colle parole, sollecitai a levarmi di quivi, ed uscii un poco meno afflitto e sconsolato.

      Intanto la ferita del marito non guariva, e molti Francesi, gentiluomini e prelati, ogni giorno lo venivan visitando. Benchè il maraviglioso viso di Ginevra mostrasse l'affanno interno che la travagliava, nondimanco la sua bellezza, con un certo languido pallore, aveva pure un tal che d'appassionato, che non si poteva mirarla e non restarne vinto: e fra quei signori la sua giovinezza, il costume e l'angeliche sembianze ogni dì più destavano maraviglia, nè si potevano saziare di magnificarla e lodarla da per tutto, a tale che la fama ne corse all'orecchio del Valentino. Molto si susurrava allora in Roma sul conto di costui. Il duca di Candia suo fratello era stato morto per le strade la notte, ancora non faceva il


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Vien così chiamato un tratto di campagna presso Castel Sant'Angelo, fra il Tevere e Monte Mario.