Ettore Fieramosca: ossia, La disfida di Barletta. Massimo d' Azeglio

Ettore Fieramosca: ossia, La disfida di Barletta - Massimo d' Azeglio


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certi orti, poi usciva all'aperto, e per giungere al campo era qualche ora di cammino. Nel passare pel borgo, Ettore s'abbattè in certe povere donne, mezzo coperte di cenci, che traendosi dietro per mano, o recandosi in collo i loro bambini cascanti dalla fame, andavano frugando per quelle case abbandonate, se mai fosse sfuggita qualche cosa all'ingorda avarizia de' soldati che le avean messe a sacco. Il cuore del giovane faceva sangue a questo spettacolo, e non potendo dar loro ajuto non poteva nemmeno sostenerne la vista, onde punse il cavallo, e di trotto si dilungò sin fuori all'aperto.

      L'insolita allegrezza che l'aveva ravvivato pensando alla prossima battaglia, fu per questo, in apparenza lieve accidente, ritornata in altrettanta mestizia, risorsero più forti i pensieri delle miserie d'Italia, e lo sdegno contro i Francesi che n'erano autori. Non potè nascondere a Brancaleone, che gli cavalcava accanto, la pietà che gli destavano i mali di quelle meschine; e quegli che in fondo era buono e caritatevole uomo, quantunque paresse ruvido pel continuo trovarsi in mezzo ai rischi e al sangue, le compativa e si dolea dei loro affanni insieme con lui.

      Vistolo Fieramosca in questa disposizione d'animo, gli diceva crollando il capo:

      – Ecco i bei presenti che ci recano questi Francesi; ecco il buono stato che ci portano!.. Ma se posso una volta veder questa razza di là dall'Alpi… – E voleva dire: faremo in modo di sbrigarci anche dagli Spagnuoli; ma si ricordò che era al loro servigio, e, rompendo a mezzo la frase, finì con un sospiro.

      Brancaleone pensava più alla parte colonnese che al bene della sua patria, e non poteva entrar pienamente nei sentimenti del suo amico; ai quali però partecipando in qualche guisa, ed a suo modo, rispose:

      – Se quest'esercito si potesse metter in rotta, non passerebbe forse molto tempo che avremmo ad assaggiare il vino del signor Virginio Orsino; e le cantine del castello di Bracciano vedrebbero una volta come son fatte le facce de' cristiani: e Palestrina, Marino e Valmontona, non vedrebbero più il fumo del campo di que' suoi ribaldi; nè sarebbero più desti a ogni tratto da quel maledetto grido, Orso! Orso! ma… non si paga ogni sabato! – Da questa risposta conoscendo Ettore che se Brancaleone s'univa a' suoi desiderii, era però ben lontano dal concordare interamente con lui quanto ai motivi, tacque; e camminarono per buon tratto di strada senza che il silenzio venisse rotto da nessun dei due.

      Il trombetta li precedeva d'un'arcata.

      Non avrà il lettore scordati i cenni del prigioniere francese circa gli amori di Fieramosca. I suoi compagni che ne udivan parlare per la prima volta, si dolevano di questi suoi dispiaceri, e per l'affetto che gli portavano, e perchè in una brigata di giovani si soffre malvolentieri chi non mette del suo per mantenere ed accrescere il buon umore. Ora mentre in quella mattina si trattava l'affare della disfida a casa del signor Prospero, si bisbigliò di questi suoi casi, che vennero anche all'orecchio di Brancaleone. Era questi pochissimo curioso de' fatti altrui; non di meno, dopo aver cavalcato un pezzo così in silenzio, vedendo il suo compagno tanto sopraffatto dalla malinconia, gliene seppe male, e vincendo la natura sua si dispose tentarlo onde gli s'aprisse; e con parole di amica sollecitudine, venne al proposito di pregarlo volesse narrargli que' casi che gli eran cagione di tanta tristezza. E seppe così ben fare che ottenne il suo intento. Fieramosca d'altronde sapeva potersi fidare di lui, ed i termini in cui si trovava pure gli scioglievan la lingua, poichè da un cuore agitato da forte passione sfugge facilmente il segreto. Alzatigli così un poco gli occhi in viso, disse:

      – Brancaleone, mi domandi cosa che non ho mai detto ad anima viva: e neppur a te la direi (non te l'aver per male) se non pensassi che potrei rimaner morto nella zuffa… e allora?.. che ne sarebbe di…; sì, sì, tu mi sei vero amico, sei uomo dabbene, hai da saper tutto. Non ti dispiaccia ascoltarmi a lungo, che non potrei farti capace in poche parole di tanti e così strani accidenti. —

      Brancaleone con gli atti del volto gli accennava quanto avea caro che dicesse, onde Fieramosca con un risoluto sospiro incominciò:

      Quando sorsero i primi romori di guerra per parte del re cristianissimo, che minacciava scendere all'impresa del reame, ben sai ch'io mi trovava giovinetto di sedici anni ai servigi del Moro. Tolsi licenza, e mi parve dovere metter la vita in difesa de' reali di Raona che da tant'anni ci governavano. Venni a Capua; si mettevano in ordine le genti d'arme, e dal conte Bosio di Monreale che avea il carico del presidio, fui condotto e comandato alle difese della città. Le munizioni erano tutte in pronto, e per allora, non essendovi altro da fare, attendevamo a darci buon tempo. La sera si faceva la veglia in casa del conte, il quale, amico già di mio padre, mi teneva come figliuolo. Già prima d'andarmene col duca di Milano, spesso gli capitavo per casa. Ivi conobbi una sua figlioletta, e così fanciulli senza saperne più in là, ci portavamo maraviglioso amore. Il giorno ch'io mi mossi per andare in Lombardia, furono i pianti e le dipartenze inestimabili: io, mi ricordo, cavalcava un giannetto, il migliore che fosse mai, e nell'andarmene passai sotto le finestre di lei, che si domandava Ginevra, e benissimo atteggiavo il cavallo nel dirle addio colla mano; ella mi gettò di nascosto del padre e d'ognuno, perchè appena faceva giorno, una fascia azzurra che non ho mai lasciata d'allora in poi.

      Ma queste erano cose da scherzo. In un anno ch'io stetti fuori mi s'era assai freddato questo primo amore. Tornato come ti dico, e riveduta Ginevra, che avendo messa persona era divenuta la più bella giovane del reame, aveva assai buone lettere, e cantava sul liuto che non avresti voluto sentir altro, non potei tanto schermirmi ch'io non ricadessi l'un cento più nel maggiore e più forsennato amore che s'udisse mai. Colei che si ricordava dei primi anni, e mi rivedeva onorato e con qualche nome nell'arme, quantunque come onesta non lo volesse mostrare, ben m'avvedevo che aveva caro udirmi quando narravo di quelle terre di Lombardia, delle guerre che avevo vedute, e delle corti ed usanze di colà; e s'ella amava ascoltarmi, io molto più amavo d'intrattenerla; e tanto andò la cosa innanzi che non potevamo vivere discosti un dito l'un dall'altro.

      Io che in parte m'avvedevo come la s'avviasse, venivo riflettendo a quanti affanni andavamo incontro ambedue. A momenti cominciava la guerra: tristo chi in tale congiuntura si trova avvolto in legami d'amore. E dove prima cercavo ogni modo d'esser con lei, dopo, divisando ciò che meglio ci conveniva, e conosciuto che il nostro amore era altro che da motteggi, mi rimaneva tanto di forza che pur mi studiavo di mostrarlo meno, e cavarmelo dal cuore. La cosa andò così avanti un pezzo. Ma quel combattimento invece di scemare il mio amore l'accrebbe; e volendolo raffrenare di fuori, quello mi lavorava dentro, e quasi mi conducea pel mal cammino. Già m'ero fatto scuro in viso, e la notte per istracco che fossi non potevo prender sonno, e sempre coll'immaginazione fissa in lei, sentivo calarmi per le gote le lagrime calde calde sul guanciale, e stupivo di me medesimo.

      Passarono così più settimane, e m'ero ridotto di qualità che bisognava pur risolversi a qualche partito. Tu già indovini a quale m'appigliai: un giorno sulle ventitrè ore la trovai sola in un suo giardino, e come volle la mia sorte, le dissi il gran bene ch'io le volevo, ed ella arrossendo, senza risponder parola si scostò lasciandomi afflitto e peggio contento che mai; e da quell'ora in poi parea cercasse tenermi discosto e quasi mai, quando v'erano altre persone, volgeva a me le parole: ond'io per disperato, nè potendo sopportare quell'inestimabile amore, risolsi in tutto andarmi con Dio, e cercar la morte ove allora già si combatteva. E passando appunto la compagnia del duca di San Nicandro, che andava alla volta di Roma, a raggiungere il duca di Calabria, mi misi in ordine per andarmene con essoloro. E senza dirle il mio proposito, un giorno volli ritentar la prova, ed alla stette salda; onde mi dovetti persuadere che quell'amore ch'io credevo scorgere in lei, era stato un sogno della mia immaginazione: e risoluto affatto (era la sera, ed alloggiava quella notte in Capua la compagnia del duca per partir la mattina) misi in ordine ogni cosa per esser a cavallo l'indomani. Me n'andai, come il solito, a veglia in casa del padre di Ginevra: eravamo soli noi tre intorno un tavoliere, e si giocava a tavola reale; quando mi venne in acconcio, dissi a lui, come avevo fisso di partire la mattina vegnente, che essendomi venuto a noja quell'ozio, volevo andar a combattere, perciò fosse contento darmi licenza. Il conte lodò il mio proposito, ed io colla coda dell'occhio pur guardavo, non privo affatto di speranza, che viso facesse Ginevra. Pensa quale diventai vistole mutar il color del volto, e farlesi rosse le palpebre? Di furto mi saettò un'occhiata che troppo mi diceva. Stetti infra due di non farne altro, ma conobbi che oramai non potevo ritrarmi coll'onor mio; e mi fu forza, quando mi trovavo il più contento e felice uomo del mondo, eseguire la mia malaugurata partenza: di qui nacque ogni


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