La plebe, parte I. Bersezio Vittorio

La plebe, parte I - Bersezio Vittorio


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un intenerimento che mi fece di nuovo rivedere in te il fratello d'un tempo; quindi, se prima era mio pensiero non dirti pure una parola di quelle cose che ora ti esprimo, determinai di botto favellarti a cuore aperto. Tu accennasti a quel tempo, non dirò felice, ma certo meno angosciato e men tristo – almanco per me, quantunque di molto, come sai, mi toccasse soffrire. Ma poichè tu li abbandonasti quei luoghi in cui passarono i nostri anni primi, e li abbandonasti per l'agonia di godere le abbaglianti delizie mondane che il villaggio non ti poteva dare, per arraffare alla sorte la tua satolla di gioie della vita cittadina, le quali da lontano, traverso la nostra ignoranza, ci apparivano quali al viaggiatore nel deserto la crudele illusione della Fata Morgana; dacchè li abbandonasti quei luoghi, hai tu cercato mai di rivederli? Io ne ho sentito tante volte, io ne sento continuamente il bisogno. Quando ho il petto troppo affannato da questa pesante atmosfera cittadina, quando ho l'animo troppo amareggiato dallo spettacolo di queste miserie e di questi dolori; quando ho le mie deboli membra troppo stanche da questo oscuro lavoro che mi dà scarsamente il pane, io con più intensità di desiderio anelo alla bellezza di quel soggiorno villereccio in cui primamente si ricordano d'aver visto la luce i miei occhi, in cui primamente sentii pensare il mio cervello. Allora, con più accanito lavoro da una parte e con maggiori privazioni dall'altra, tento raccozzare il pane di pochi giorni di ozio, e una volta guadagnato questo per me grandissimo capitale, io mi sento, io sono ricco, più ricco di messer Nariccia che anche tu conosci e accumula marenghi sopra marenghi pressurando il povero coll'arte infame dell'usuraio; io parto con passo animoso dalla città, e corro, corro verso quella valle, e a seconda che di qua mi allontano, sento più libero il rifiato, più aitante il corpo affralito, più serena la mente, troppo spesso e troppo conturbata. Allorchè là son giunto, con che emozione rivedo quei conscii luoghi! La misera casipola dove vissi vide pure molte mie lagrime di fanciullo; anzi quasi non altro che lagrime: e tuttavia non passo mai davanti ad essa senza che il cuore mi palpiti. Mi soffermo sulla soglia della porta di strada a guardar dentro lo stretto e sempre sucido cortile, in cui nel fimo razzolan le galline, in cui presso il truogolo grugnisce e s'impantana nella melma il maiale; vedo la scura, bassa, angusta, affumicata cucina, e in fondo ad essa il camino, entro cui nelle lunghe serate d'inverno io, accoccolato nel cantuccio più rimoto, guardavo a brillare la fiamma che cuoceva la poca cena e tutto intirizzito dal freddo fissavo quello splendore con infinita intensità di desiderio; il petto mi si gonfia di sospiri e gli occhi di lacrime… E passo! Nessuno più mi conosce colà. Quelli che mi tormentavano e mi davano quel poco di pane amarissimo che mi teneva in vita, non ci sono più. Delle faccie sconosciute mi appariscono in quel quadro. Eppure mi commuovo. Oh! se alcuno mi vi avesse amato come ti amò la Margherita!..

      Gian-Luigi fece un movimento che Maurilio attribuì all'impazienza.

      – Non isdegnarti… Disse. Io son fatto così: o non dir nulla, o dare pieno sfogo ai miei sentimenti. Poichè ho cominciato, lasciami dunque dire a mia posta.

      CAPITOLO VI

      Dopo una brevissima pausa, Maurilio riprese:

      – Ah! se alcuno mi avesse amato, ah! se alcuno mi amasse colà! Quando respiro quelle aure, io divento migliore. Anche colà, certo, sono e miserie e dolori, ma l'umanità vi è men trista e la fatalità meno crudele che non nei bassi fondi della cittadinanza, dove s'agglomera il marame della massa sociale; ma colà vi ha pure una specie di egloga in azione che la natura pietosa manda come una consolazione al diseredato della gleba. La campagna ha il sole, ha la primavera, ha le feste sane e moralizzatrici, del lavoro sotto la cappa del cielo, la fienatura, la messe, la vendemmia… Avessi potuto essere un coltivatore e maneggiare l'aratro! Presso la spica e presso il grappolo ad ogni modo si soffre meno. Qui in questa bolgia di fango, sotto una cappa di nebbia, la miseria è più crudele, senza pure il temperamento della dolce vista del paese… Io mi reco sempre al cimitero. Non ci ho nissuno di mio sangue che dorma là dentro; si consumano in quella terra le ossa di coloro che hanno tormentata la mia infanzia. Non un affetto che mi leghi alle ombre di quei morti. Eppure, io siedo con mesta e dolcissima tenerezza su quei tumuli e il vento che geme sommesso fra le alte erbe di quel campo solitario, mi canta in una grave armonia mille cose inesplicabili che mi scendono al cuore e mi accarezzano l'anima. Poscia vado alla chiesa parrocchiale, dove la mia voce di fanciullo suonava sotto la volta del coro nel canto degli inni sacri, dietro la guida della voce ancora robusta di don Venanzio. L'hai tu dimenticata la testa canuta e grave di quel buon vecchio, vero sacerdote del Vangelo? Ecco l'uomo che io ho amato di più nell'infanzia, che mi amò come amava tutti al mondo, ch'egli comprendeva sotto il nome di prossimo, che mi avrebbe forse amato anche di più, quasi come un figliuolo, se non avesse visto la mia ragione, forse il mio orgoglio ribellarsi a quella schiavitù ch'egli portava da tutto il tempo della sua vita e porta tuttora, ch'egli trovava dolce e che voleva impormi, la schiavitù della fede.

      Gian-Luigi fece un sorriso di superba compassione.

      – Quel povero vecchio! Diss'egli. Oh! se me lo ricordo. Fra tutti i bambini ch'egli pigliava ad istruire per carità, non aveva tardato ai accorgersi che noi due, tu ed io, avevamo nel cervello qualche cosa di più che gli altri. Si mise con più cura a svegliare in noi quell'ingegno che aveva travisto e voleva rivolgere a benefizio della Chiesa, a cui egli appartiene. Il buon uomo aveva sognato di fare di noi due difensori della fede; quando vide che quella non era la nostra strada, forse si pentì d'averci tolti all'ignoranza. Mi ricordo che l'ultima volta in cui lo vidi, mi disse con doloroso abbattimento: Credevo di guadagnarvi a Dio; aimè! vi ho guadagnato al Demonio.

      – Io ho per lui la maggior gratitudine che possa avere anima d'uomo: ripigliò a dire Maurilio. Per lui ha incominciato a stenebrarsi la mia mente. Quando entro, come ti dissi, in quella chiesa, che da bambino mi pareva così vasta e solenne, ed ora trovo qual è, niente più che un'umile e piccola chiesuola di campagna, io vado a sedermi nel coro, sopra uno di quei banchi di legno rozzamente scolpito, dei quali un per uno ho contati e toccati ed accarezzati tante volte i fiorami nelle ore del catechismo e delle sacre funzioni, mi serro nelle mani la testa, e tutto il mio passato mi difila dinanzi, illuminato dal sorriso mesto e benigno di don Venanzio. E talvolta, alzando il capo, me lo vedo in faccia lui stesso, sempre colla sua aria serena, colla sua bella aureola di capelli bianchissimi, col mite e pietoso splendore de' suoi limpidi occhi azzurri, che nella silenziosa solitudine di quel povero tempio, mi appare come il buon genio del luogo. Ad ogni volta egli mi viene incontro con una speranza che gli rallegra il viso:

      « – Ah! Siete voi Maurilio? Dic'egli. È la mano di Dio che qui vi ha scorto? È la grazia che vi ha tocco? Nei luoghi della vostra infanzia siete venuto a cercare ed avete trovato la fede?

      «Io crollo tristamente la testa; egli china con doloroso atto la sua, lascia cader la mano che mi tendeva, ed esclama: – Siate il benvenuto, nulla meno nella casa di Dio ed in quella del suo servo. Un giorno verrà, io spero, in cui l'anima vostra sarà riacquistata a quella divina, che lega la miseria della creatura alla grandezza del creatore; e mi conceda Iddio che in quel dì io sia ancora sulla terra e possa accogliervi nelle mie braccia.

      – Eh! Fole! Esclamò Gian-Luigi sprezzosamente. Quel giorno saresti rimbambito al par di lui: e non è dei caratteri e degli ingegni come i nostri che si lasciano pigliare a ragne da femminette.

      Maurilio aspettò un istante, e poi soggiunse:

      – Ad ogni volta don Venanzio mi parla pure di te.

      – Sì? Benone! Gli è desso dunque che mi accusa, ci scommetto. Che cosa ti dice?

      – La sera, rispose Maurilio, quando le ombre invadono quella chiesa deserta, quando non un passo turba più il silenzio sepolcrale di quelle volte, quando non un bisbiglio di preghiera s'innalza più innanzi all'altare, una forma di donna che lentamente ed a fatica si strascina, viene a gettarsi ai piedi della statua della Vergine. Il debole lumicino che pende dall'arco della nicchia, colla sua fioca luce illumina il corpo curvo, affranto, miseramente vestito, d'una vecchia inferma. Tutto bianchi i capelli, tutto rughe la faccia il pallore del bisogno e della malattia sulle guancie, il rossore delle lagrime negli occhi mezzo ciechi, gli strappi della miseria intorno alla persona, i segni della fame nella magrezza dolorosa delle membra che tremano. Se tu fossi colà, udresti delle preci mormorate con quella passione che dinota il trasporto dell'anima, tutta tutta intesa in un pensiero, poi sospiri profondi, poi singulti di pianto che straziano l'anima.

      «


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