La plebe, parte I. Bersezio Vittorio
a noi poveri, perchè abbiamo da non usarla e lasciarci far la legge da una schiera di minchioni e di birbanti, che sono più deboli, che godono i dolci ozi mantenuti dai nostri sudori? Noi poveri siamo più forti e siamo in più. È una cosa assurda che ci lasciamo morir di fame guardando la tavola ben servita degli altri che sono più deboli e che sono in meno. Capisci?
E scuoteva per la carniera il suo compagno, il quale sempre più ubbriaco ripeteva balbettando:
– Capisco!.. Sono in meno.
– Che cosa dunque ci manca a noi, eh?
– Ah si! Che ci manca?.. Ci manca tutto… Ho da pagare l'affitto a messer Nariccia, e non ho denari… Ho da comprar pane e vesti ai miei bambini che gridan dalla fame e treman dal freddo; e non ho quattrini… Ho una buona donna di moglie che sta poco bene, che un giorno o l'altro andrà a creparmi all'ospedale… e non ho un po' di monete da farla curare… E non c'è lavoro… E non so da che parte voltarmi… E sono disperato… Ecco!
La commozione lo guadagnava non ostante la sua ebbrezza: due lagrime gli colarono giù per le guancie: e il suo capo gli dondolava con mossa veramente dolorosa. Alzò alle labbra la mano che teneva il bicchiere quasi pieno e lo tracannò d'un fiato.
Marcaccio, tirando di nuovo Andrea per la casacca, riprendeva, come se non fosse stato interrotto:
– Ci manca d'essere uniti e di aver un po' di coraggio nelle budella, e di liberarci da certi scrupoli di femminetta che son quelli che ci danno piedi e mani legati in balìa dei ricchi. Mi capisci?
Andrea accennava col capo di sì, ma il suo sguardo incerto ed offuscato dinotava che troppo confusa oramai era la sua intelligenza per avere un'idea chiara ed esatta delle cose che gli venivan dette.
– To'! Se un bel giorno tutti i poveri, tutti quelli che stentan la vita nel lavoro se la intendessero insieme e gridassero: non vogliamo più esser poveri, vogliamo spartire con voi, ricchi, quei tanti denari che avete; vogliamo farla finita di questa ingiustizia che a noi nega la polenta ed a voi dà le quaglie arrosto; non credi tu che bisognerebbe il mondo passasse per quella, e non ci varrebbero nè carabinieri, nè arcieri, nè soldati, nè tribunali, nè i mille terremoti del sacramento a dettarci più la legge? Hai capito?
– Ho capito: ripeteva balbuziente Andrea.
– Ma gli è che siamo degl'imbecilli e dei codardi a lasciarci calpestare così… Gli è ciò che dice sempre quel furbacchione che è il medichino. Quello è un capo di vaglia! Egli ha studiato, egli sa come può sapere qualunque dei ricchi che compra la scienza nei libri stampati. Queste cose che io capisco col mio buon senso, egli le ragiona per quinci e per quindi; e ti prova per due e due fan quattro, come, poichè siam posti qui in questa baraonda, ci abbiamo il diritto di stare, e siccome per vivere bisogna mangiare, abbiamo diritto di avere il pane assicurato, ed essendo che questo pane ci viene negato, corpo di mille diavoli, abbiamo il diritto di pigliarcelo da chi ne ha troppo… È chiaro?
– È chiaro: ripetè ancora l'ubbriaco, dondolando sempre la testa a suo modo.
Marcaccio si fece ancora più presso al suo compagno, si curvò maggiormente verso di lui, e scuotendolo di nuovo ai panni affine di farsene ascoltare con più attenzione, continuò abbassando un poco la voce:
– Di questi ricconi che ne han troppi e lascian morire il povero di fame ce n'è a fusone, e ne conosciam tutti. Tu ne conosci uno che qualche volta pure si degna di farti l'ingiuria dell'elemosina.
– Elemosina? balbettò Andrea battendo col fondo del bicchiere sulla tavola. Sì, è una cosa che fa vergogna… Un uomo come me aver da domandare l'elemosina!
– Aver da domandare, umiliandoci, quello che ci viene per diritto e per natura, il pane da vivere!.. È una scelleraggine… E ancora, sì che troviamo facilmente chi ci faccia elemosina!.. I ricchi hanno il cuor duro come i zamponi del cavallo di marmo. Andate a lavorare, ci dicono con disdegno; è la gran ragione che hanno sempre in bocca: andate a lavorare.
– Lavorare!.. Ripeteva l'altro sempre più ubbriaco. Ma dove trovarne del lavoro?.. Piaceva anche a me una volta il lavorare…
– Eri un babbuino.
– Dall'alba al tramonto, sempre la lima o il martello in mano, e giù allegramente.
Scosse la testa, in guisa di rimpianto doloroso.
– Ah! bei tempi erano quelli! Il corpo stanco, l'anima tranquilla e il borsellino guarnito… Come si dormiva! E con che gusto si mangiava quel boccone di pane! I bambini non piangevano; la moglie non tossiva E poi?.. E poi il demonio mi ha gettato te fra le gambe… Tu, Marcaccio, mi hai insegnato il cammino dell'osteria e disappreso quello del lavoro… Mi ci sono divezzato… Il principale presso cui lavoravo, mi ha mandato via come un ubbriacone… Poi un altro idemme… Non ne ho più trovato di lavoro, non ne trovo più, e sono alla miseria!
Si dirizzò un momento del corpo sulle anche, e un raggio d'intelligenza balenò fugacemente nel suo sguardo avvinazzato.
– To', la cagione d'ogni mio malanno sei tu.
– Eh via! rispose Marcaccio con accento tra beffardo e minaccioso. Queste le sono sciocchezze… Bevi!
E gli mescette nel bicchiere.
Quel lampo d'intelligenza ratto svanì in Andrea; il suo corpo s'accasciò di nuovo contro la parete, e con atto automatico la sua mano gli recò alle labbra il bicchiere riempitogli da Marcaccio.
– Che? Ripigliava quest'ultimo: tu rimpiangeresti quel tempo in cui ti frustavi la vita senza riposo, senza mai un momento di piacere? Oh che siamo animali da tirar la carretta come i muli, sotto la sferza del bisogno? Io non domando solamente che mi si dia il pane da non crepare, domando un po' di quei tanti beni che godono i ricchi… Lavoro! Lavoro! È l'antifona che ci cantano sempre. Ed essi lavorano forse, i ricchi? Siamo tutti uomini uguali, lo dice anche il Catechismo, ed a pugni anzi noi la facciam bere agli altri… Dunque perchè a loro tutto, ed a noi niente?.. È tempo che ciò finisca.
– Sì, è tempo che finisca: ripeteva ancora Andrea.
– Ti dicevo d'un riccone che tu conosci, e che di quando in quando ti umilia con un po' di elemosina. Sai già chi voglio dire: il marchese di Baldissero.
Lo sconosciuto aveva prestato sino allora vivissima attenzione ai discorsi de' suoi due vicini, e quando Marcaccio aveva abbassata la voce, egli, per non perderne pure una parola, s'era sporto della persona ad appressare l'orecchio al parlatore; ora all'udir pronunziato quel nome, sembrò accrescersi ancora l'interessamento con cui ascoltava, e tutto tutto parve intento ad afferrare le parole di Marcaccio.
Codesto vedeva l'oste, il quale, riaccoccolatosi dietro il suo banco, faceva scorrere di sotto alle prominenti occhiaie il suo sguardo da gatto per tutta la stanza dell'osteria.
– Uhm! Diceva egli tra sè di mal umore. Se l'ho detto che codestui era un mercante di fiato… Un novizio però!.. Ve' come si sporge, come allunga il collo e tende gli orecchioni!.. Lo si può riconoscere da lontano le cento miglia… Uhm! Uhm! E quel soro di Marcaccio non ci abbada… Ha tanto giudizio come un fiasco rotto, ed è ubbriaco come una doga… Chi sa che razza di discorsi scomunicati mi sta facendo! Uhm! Non vorrei che compromettesse la mia osteria e me… Quanto a lui vada pure a dar calci a rovaio che poco me ne importa; quantunque con esso ci sia da guadagnare dei bei denari… Che il diavolo lo scavezzi; ma non vorrei che tirasse me nella ragna; e chi sa che cosa può dire, ebbro com'egli è!.. Uhm!.. Bisogna avvertirlo.
E s'alzò da sedere, avviandosi lentamente a suo modo verso il desco occupato da Marcaccio e da Andrea.
– Ah sì, il signor marchese, diceva intanto quest'ultimo: quello è un galantuomo… Oh sì un vero galantuomo!
Marcaccio scrollava compassionevolmente le spalle.
– Un galantuomo! Perchè ti dà qualche soldo di quando in quando di quelli che non sa cosa farne, e ne ha tanti che basterebbero a far vivere dugento altre famiglie.
– Ne dà a tutti: ripigliava con un certo calore Andrea: ne dà a tutti il marchese… io non oso molto comparirgli davanti, perchè me, mi strapazza, e quando