La plebe, parte I. Bersezio Vittorio
mi batte…
– E te ne mancano?
– Sei.
– Menami a casa tua. Darò alla nonna i dieci soldi per te.
Il fanciullo non mostrò stupore nessuno, nè gioia, nè riconoscenza: s'alzò e si pose a camminare a costa dello sconosciuto, ma tutto ingranchito ed intirizzito com'era, co' piedi irrigiditi e dolorosi per la gonfiezza, mal potè farlo, onde mossi appena alcuni passi, si fermò e ruppe in pianto.
Lo sconosciuto fermessi pure e gli domandò:
– Che cosa hai?
Il bambino rispose della solita guisa:
– Ho freddo, ho fame.
– A casa la nonna non ti darà da cena?
Il fanciullo scosse la testa.
– Una crosta di pane se la è di buon umore e non lo è mai.
E seguitava a piangere, e batteva i denti.
Nell'oscurità della via, poco lontano brillava il rosso chiarore che gettava per l'uscio a vetri la bettolaccia che ho già accennato.
Lo sconosciuto guardò verso quella porta, sopra i cui sucidi cristalli stavano scritte le classiche parole: BUON VINO E BUON RISTORO e parve esitare un momento; poi, come se subitamente si decidesse, prese per mano il bimbo e gli disse:
– Vieni: te ne darò io da cena.
E col fanciullo s'introdusse nell'osteria piena in quel punto di rumore e di gente.
CAPITOLO II
La bettola si trovava in una bassa casipola che ora fu distrutta affine di allargare la strada. Per entrarvi bisognava scendere due scalini.
Lo sconosciuto apri l'uscio a vetri e si trovò in uno stanzone più lungo che largo, colle pareti affumicate, col pavimento composto d'assi inchiodati, tutto ronchioso pel fango recatovi ed appiccatovi qua e colà dai piedi degli avventori, con un'atmosfera grassa, densa, impregnata di acri odori, in cui il fumo faceva con pieno successo le funzioni che per la strada adempiva la fitta nebbia di quella sera invernale.
Dal trave del soffitto annerito, insieme con infiniti arazzi di ragnateli, per una cordicella ripiegata da tirarsi su e giù passando in mezzo ad una colomba di piombo, pendeva una lampada a tre becchi, di cui due soli avevano acceso il lucignolo, con certi tubi di vetro affumicati, e con una vernice rossa che era mezzo staccata dalla latta.
Lunghesso le pareti eran poste, ad uguale distanza l'una dall'altra, delle tavole oblunghe, e ai lati di esse delle panche di legno lunghe quanto le tavole medesime; nelle pareti, al di sopra di ciascuno di codesti deschi, era scritto in nero con cifre alte un palmo un numero diverso e progressivo.
In fondo allo stanzone, da una parte c'era un banco a mezzo ripieno di fiaschi e fiaschetti, e dietrovi seduto l'oste, con davanti un libro di conti dalla copertina sucida e strappata e un calamaio di piombo con un mozzicone di penna piantato nella bambagia immollata d'inchiostro: dall'altra parte si apriva una botola, con una cateratta che stava sempre sollevata ed appoggiata contro il muro, per la qual botola si scendeva nella cantina sotterranea, dove si custodivano i vini e si cucinavan le pietanze consumate in quell'orribile stamberga.
Nella parete, alla destra di chi entrava, presso al banco a cui sedeva l'oste, aprivasi una porta che metteva in un'altra stanza; ma questa era una stanza riservata, in cui non s'avventurava la comune dei bevitori, ed entravano soltanto alcune brigatelle di soliti accorrenti che, per la conoscenza avutane dal bettoliere, e per la vistosità dei guadagni che gliene recavano eran meritevoli di siffatto privilegio. I misteri di quella camera erano difesi dallo sguardo dei profani per certe cortine di stoffa di cotone di color rosso tirate accuratamente ai vetri dell'uscio. Al momento in cui lo sconosciuto col fanciullo per mano entrava nella bettola, quest'uscio misterioso si era aperto, per dar passo alla fante dell'oste, giovane grassotta e belloccia, con aria sfacciata, la quale portava colà dentro un vassoio e sopravi parecchi bicchieri e due boccali colmi di vin rosso. Chi si fosse trovato in quella di prospetto all'uscio avrebbe potuto vedere nella stanza di cui si tratta un allegro fuoco fiammare in uno di quei caminetti che pigliano il nome da Franklin, e intorno ad esso seduti cinque o sei uomini di varia età e di vario aspetto, che dalle vesti però apparivano appartener tutti alla classe degli operai, tutti, tolto uno, con figure risentite, e come si suol dire con di quei certi ceffi che non fa piacere incontrare nel nostro cammino, la sera.
Quasi tutte le tavole dello stanzone erano occupate dalla folla dei bevitori. Di questi tutti portavano la livrea della miseria, molti quella della abbiezione. Alcuni giuocavano alle carte, altri alla morra; gridavasi da ogni banda in un disarmonico concerto, nel quale più disarmoniche suonavano tratto tratto le voci e le risa roche di luride donnaccie di mala vita.
Lo sconosciuto personaggio, il quale primo ci apparve in questo dramma, di cui siam dietro a svolgere le scene, entrò colà dentro colla medesima sicurezza che avrebbe avuto un uomo avvezzo a quei luoghi ed a quelle cose. Quell'afa impregnata di acri odori e di ingrati vapori, percotendogli sul viso non parve destare in lui il meno del mondo quella ripugnanza, da cui non avrebbe potuto difendersi, e cui non avrebbe saputo al certo dissimulare una persona all'atto nuova a quell'atmosfera.
Egli guardò intorno per cercare un posto a cui assidersi, e, da parte loro, il maggior numero dei bevitori, nell'udire il campanello della porta che suonò all'aprirsi dell'uscio, levarono la testa e si volsero a guardare chi entrasse.
Lo sconosciuto aveva tirato giù dal viso la falda del mantello, onde si copriva per la strada, e potevano vedersene i lineamenti alla rossigna luce della lampada di latta appesa al soffitto.
È una figura originale. In tutta la sua persona, come nei tratti del viso, un misto di forza e di debolezza, di bontà e di malizia, di sentimento e di noncuranza. Al primo vederlo mal sapreste dirne al giusto l'età. Vi è qualche cosa di giovanile nello sguardo, nella fronte, nella rara lanugine di barba scura che appena gli vela le guancie: vi è alcun che di vecchio e direi quasi di logoro nella curva del petto, nel floscio delle carni giallognole, nella mestizia abituale dell'aspetto infermiccio.
S'ei tiene spianata la spaziosa e pallida fronte su cui pare abbia impresso un segno il dito di Dio, quella fronte coronata da corti capelli d'un nero lucido ed azzurrigno, i quali irti e ribelli ad ogni ravviatura, danno alla sua testa una meravigliosa apparenza di risoluzione e di forza; se egli, i suoi occhi, che hanno il colore del mare, e ti appaiono come questo profondi, fa brillare d'un lampo di letizia o d'affetto; se sulle smunte gote gli corre un istante a colorarle il sangue, e sulle sottili e scialbe labbra erra un sorriso, tu nol diresti giunto per anco ai vent'anni; ma se egli, qual è suo costume, tiene aggrottate le sopracciglia e turbata come da incessante lotta di pensieri la fronte, dimesso lo sguardo, serrate le labbra, curva la testa, tu lo crederesti presso ai quaranta, e ti appare per soprappiù roso da una di quelle interne infermità degli organi vitali che distruggono lentamente la vita.
Avreste detto che la natura lo aveva creato per essere il più forte e robusto degli uomini, e che le circostanze e la sciagura lo avevano ridotto ad essere debole e miseruzzo. Un capo grosso stava sopra un corpo non a sufficienza cresciuto nè sviluppato, il quale pareva aver difficoltà a portare un tanto peso; il petto incavato pareva concedere a stento l'agio di respirare ai polmoni; delle mani grosse, nodose e da gigante si annodavano a braccia esili, piccole, forse troppo lunghe a paragone della corporatura, poco meno che da rachitico; una macilenza malaticcia gli ammenciva, per così dire, tutte le membra e lasciava apparire più che non convenisse l'ossatura grossa e sformata.
Eppure, a malgrado, e forse anche a cagione di tutto ciò, la sua era una di quelle figure che ti sorprendono e ad ogni modo non puoi trovare indifferenti; di certo era tutt'altro che bella, ma pure chiamava l'attenzione del riguardante e non si sapeva perchè. Quella faccia stranamente impressa ti destava tutt'insieme una qualche simpatia, quasi direi un senso di rispetto, eppure una certa diffidenza; per poco tempo tu guardassi quelle sembianze, le ti si stampavano nella memoria, ed o ti attraevano o ti ripugnavano, o ti consigliavano a farti amica l'anima che vestivano od a sfuggirla; o eri disposto ad amarla, o la temevi come un pericolo.
Quest'uomo volse tutt'intorno uno sguardo sicuro, e visto che un'unica tavola era disoccupata