La plebe, parte I. Bersezio Vittorio
E ad ogni modo quell'imbecille di Meo sarà uno stromento che saputo maneggiare finirà per aprirci il segreto di ogni cosa.
CAPITOLO VIII
Maurilio, uscito dalla stanza a vetri dopo il colloquio con Gian-Luigi, venne sollecito al desco a cui aveva lasciato il ragazzo trovato per la strada. Questi, dopo aver ben mangiato e ben bevuto, aveva appoggiate le sue piccole braccia sulla tavola, messovi su la sua piccola testa, e s'era saporitamente addormentato, a dispetto di tutto il baccano che veniva facendosi intorno a lui entro al denso aere di quella stanza, baccano che non era punto sminuito, ma piuttosto era venuto aumentandosi.
Maurilio stette un istante a contemplare quel ragazzo. Ei dormiva così tranquillamente, con tale una sembianza di benessere, che il giovane ebbe un momento d'esitazione prima di svegliarlo per condurlo via. Ma poi si decise a riscuoterlo, e già tendeva una mano per mettergliela sulla spalla, quando una nuova scena sopravvenne che ne lo fece sostare, tutta a sè chiamando la di lui attenzione.
Andrea e Marcaccio erano ancora a quel medesimo posto, in quella medesima attitudine, tornati ai medesimi discorsi, se non che l'ebrietà in ambidue era maggiore.
Marcaccio faceva allusione a quel furto vistoso di cui udimmo un cenno sulle labbra di Barnaba, commesso a danno del signor Bancone, uno dei principali banchieri della città; e con argomento che un maestro di logica avrebbe chiamato ad hominem, diceva al suo compagno che se fra quei capi di vaglia i quali avevano fatto il colpo si fossero per fortuna trovati ancor essi, avrebbero ora le tasche piene di denaro, e potrebbero bere tutta la canova di mastro Pelone; alle quali parole Andrea, che il lume della ragione omai ce l'aveva perduto tutto, rispondeva; sempre più balbuziente, con dei sicuro frammisti a voci inarticolate ed accompagnati da pugni sulla tavola.
Quegli altri dalle triste fisionomie, usciti fuor della camera vicina con Gian-Luigi, si erano sparsi qua e colà per la bettolaccia, alcuni rimanendo a gruppi fra di loro, altri ad uno, a due andandosi a frammischiare alle brigatelle che già erano formate intorno ai deschi, e susurrando a bassa voce nell'orecchio di qualcuno, con certe arie misteriose che ti davan sembianza di gente che comunicasse qualche parola d'ordine o qualche segreta istruzione.
In quella una donna miserissimamente vestita aprì l'uscio d'ingresso e stette sulla soglia peritandosi d'entrare, quasi timorosa, lanciando tutto intorno nell'aer crasso della bettola uno sguardo inquietamente ricercatore.
Alcuni, cui dava fastidio l'aria fresca che s'introduceva per la porta semiaperta, volsero a quella parte il capo e gridarono di mala grazia:
– Ehi là! Chiudete quell'uscio, che vi colga un accidente! Volete darci una scarmana che ci mandi a far terra per le pignatte?
Uno di loro riconobbe la donna chi fosse.
– Ah ah! siete voi, Paolina?.. La solita storia eh?.. Venite a cercare vostro marito, ci scommetto… Entrate, Paolina, che diavolo! Entrate e chiudete quel battente in vostra buon'ora… Vostro marito è laggiù.
Paolina entrò del tutto e lasciò richiudersi dietro sè la porta. Era una donna di età ancora giovane, ma dai patimenti affatto stremata. Il viso color della cera, le labbra con livido pallore, livide le occhiaie infossate, gli occhi ardenti dalla febbre. Aveva intorno alle membra macilente una misera ciopperella di panno di cotone in più luoghi e con istoffe d'altri colori rappezzata; copriva il capo con un fazzoletto sbiadito, logoro, sfilacciato, ora tutto inumidito dal nevischio che il tempo freddoloso pareva stacciare traverso la nebbia nelle strade, e di sotto a questo fazzoletto le uscivano scarmigliate alcune ciocche di capelli nerissimi, fra cui cominciavano immaturamente ad essere frequenti i fili d'argento. Il dorso e il petto avea ricoperti da un pezzo qualunque di stoffa che le serviva da scialle.
Non la miseria soltanto, ma la malattia ed il dolore erano stampati sul viso di quella povera creatura che pareva reggersi e camminare con istento.
Ella ringraziò colui che le aveva parlato ed aguzzò gli occhi continuando a cercare per entro la densa atmosfera di quello stanzone.
– Dov'è egli, Andrea?
– Laggiù, vi dico: rispose ancora quel tale: in fondo, a sinistra… To', guardatelo là con Marcaccio.
Paolina fece un atto come di sdegno, il quale venisse a sopraggiungersi all'abbattimento ed al dolore che già la possedevano; e i suoi occhi vivamente balenarono fissandosi sulla testa di Marcaccio, la quale stava curva verso quella di Andrea, parlando a costui come sappiamo che faceva.
La donna, a quella vista, parve acquistare vigore e smettere affatto la timidezza e la peritanza; camminò risolutamente verso il desco a cui erano seduti i due uomini che abbiamo nominati, ed accostandosi al marito, gli pose, senza pur dir una parola, la mano sopra la spalla.
Andrea si riscosse in sussulto e levò il capo che gli cadeva abbandonato sul petto, mostrando la sua faccia imbestialita dall'ebbrezza.
Al vedere un'ombra comparire e stare presso di loro, anche Marcaccio alzò gli occhi verso di essa, e visto chi fosse, corrugò minacciosamente la fronte.
– Ah Paolina! Diss'egli con tono burbero ed impertinente. Ne siamo forse di nuovo alle solite. Che cosa venite qui a fare? A romper le tasche a vostro marito come sempre?
La donna fece guizzare verso Marcaccio un rapido ma ardentissimo sguardo, in cui c'era tutto il rancore e tutto l'abborrimento che può avere un'anima onesta verso il mal genio della sua famiglia e l'autore di tutti i suoi mali; ma non rispose pure una sillaba.
– Andrea: diss'ella al marito con voce soffocata, affannosa, ma pur tuttavia dolcissima, e con accento di amorevole rampogna: Andrea, vieni a casa.
L'ubbriaco guardava la moglie coll'occhio stupidamente rimbambolito.
– A casa? Ripetè egli: sì a casa… Adesso ci vado appena che abbia finito di bere… Ma prima bisogna finire di bere… Ehi! oste del contagio, porta qui una di barbèra.
– Andrea, bisogna venirci subito a casa: disse la moglie con una certa autorità che a tutta prima fece impressione sull'ubbriaco.
Egli accennò volersi alzare, come per obbedire a quel cenno: ma il suo corpo non era in caso di far ciò con tanta agevolezza, e Marcaccio dandogli uno spintone, mentr'e' stava a mezza strada, lo fece ricadere seduto com'era prima.
– Sei tu matto? Disse beffardamente Marcaccio. Da quando in qua le donne hanno da comandare agli uomini come noi? che vuoi tu lasciarti metter le dande e menar a lascia?
Andrea fissò il suo sguardo avvinazzato in quello del compagno, e ripetè con una grossa bestemmia:
– Menar a lascia?.. No giuraddio!
Alla donna un po' di sangue salito al viso arrossò un istante i pomelli delle ceree guancie; ma non degnò Marcaccio neppure d'uno sguardo.
– Sentite, Paolina, le diceva intanto quest'esso; se volete, sedete lì un momento, e vi daremo una volta da bere…
Paolina non potendo più frenarsi, gli si volse incollerita e colle labbra tremanti ed accento pieno di sprezzo lo interruppe:
– Con voi non parlo.
La figura di Marcaccio divenne terribile per feroce e scellerata espressione: ma poi tosto egli diede in una grassa risata.
– Oh oh! sentite che tono, la signora marchesa! Con noi non si degna!.. Allora date retta ad un mio consiglio, Paolina, e sarà il vostro meglio. Alzate i tacchi, e non seccateci più la gloria.
Paolina tornò rivolgersi al marito, senza dare a Marcaccio altra risposta.
– Vieni, diss'ella nuovamente con supplichevole accento. È tardi. Sai che gli è fin dal primo imbrunire che ti attendiamo… Sono i tuoi figliuoli che ti attendono… Tu dovevi venirci a portare i denari della cena… E non sei venuto; e mentre tu stavi qui a sbevazzare, mentre ci sei, i tuoi figliuoli hanno fame…
Andrea si passò la mano sulla fronte che incominciava a diventar calva, e stette così un poco, come per raccogliere le sue sparse e confuse idee.
– I miei figliuoli hanno fame: ripetè egli poi con accento doloroso, come se quelle tremende parole avessero avuto potenza