La plebe, parte IV. Bersezio Vittorio
nel capo suscitarsi e tumultuare la follia di mille assurde speranze.
– Sì, sì, sarà… sarà anche questo. Io confido nel Signore; e non è per nulla di certo che la sua bontà ci ha messo sulla traccia ora soltanto, dopo tanto tempo… Ma questo non è momento di parlare di ciò… nè di ciò nè di altro, perchè la è l'ora dell'asciolvere, e siamo attesi tuttedue.
Maurilio guardò Don Venanzio con aria esterrefatta. Questo asciolvere, voleva egli domandare, si farà con tutta la famiglia? Era dunque giunto il momento desiderato e temuto, felice e pur penoso, di comparire innanzi egli all'amata fanciulla?
Il buon vecchio prete che nello sguardo e nella mossa del giovine vide soltanto una maraviglia, credette rispondere a quest'essa spiegando come andasse la cosa.
– Sì, continuò egli, ci siamo attesi tuttedue. Il marchese ha voluto ad ogni patto che fin tanto che io rimango a Torino, venga a farti compagnia… Se ti dico che con tutta la sua dignitosa fierezza è il migliore dei bravi uomini! Ha capito che ciò farebbe un immenso piacere a me e nel medesimo tempo gioverebbe a levar te di suggezione, ti sarebbe d'aiuto nell'affarti all'ambiente della casa… Dunque poc'anzi sono venuto, come egli me ne aveva detto, e discorso un poco insieme del più e del meno, vennero ad annunziare che se S. E. voleva si sarebbe servito in tavola per l'asciolvere. Il marchese mi disse: «Ella non ha ancora visto la camera del sig. Nulla?» – «No, signor marchese:» io gli risposi. «Ebbene se vuole andare a chiamarlo Ella medesima per l'asciolvere, avrà tempo a dargli un buon giorno ed un abbraccio: e così potrà interrogarlo se gli manca e se desideri alcuna cosa cui forse non oserebbe domandare al mastro di casa.» Ve' che bontà!.. Io accettai l'incarico ed eccomi… Già son persuaso che non ti manca nulla.
– No certo.
– Dunque non c'è altro che discendere nella sala da pranzo.
– Andiamo: disse Maurilio il quale si sforzò a dominar la emozione che nacque subitamente e vivissima in lui.
Ma al punto di varcare la soglia di quella stanza dovette fermarsi e reggersi allo stipite, tanto il cuore gli batteva e glie ne tremavan le gambe.
– Coraggio! gli disse Don Venanzio che credette questa soltanto emozione di timidità; e' son tutti in fine uomini come siam noi, per quanti titoli abbiano al proprio nome.
Maurilio si fece forza e discese in compagnia del parroco. Quando entrarono nella sala da pranzo non c'erano ancora che due domestici in piccola livrea, immobili come statue presso un'alta credenza di legno d'ebano scolpita, nella quale brillavano nitidissimi cristalli, porcellane ed argenti, e il servo di confidenza del marchese, in abito nero e cravatta bianca, dritto dietro l'alta spalliera della seggiola su cui soleva sedere il capocasa.
Non tardarono a sopraggiungere il marchese che dava il braccio alla marchesa, e dietro essi Virginia. Maurilio sentì la presenza di lei, ma non osò alzare il capo nè gli occhi a guardarla: se ciò avesse fatto, avrebbe trovato così pallido il viso della fanciulla, così chiare in esso le traccie della insonnia e d'una pena morale che ne sarebbe stato più di commosso.
Don Venanzio fu amichevolmente salutato da tutti, anche dalla superba marchesa; la sua qualità di sacerdote gli valeva siffatta distinzione dalla fierezza aristocratica di quella donna, più per principio politico che non per devota osservanza al sacro di lui carattere. Virginia con un sorriso di tutta amorevolezza andò a porger la mano al vecchio prete dicendogli parole piene di grazia e di dolcezza.
– Il signor Nulla, il nuovo segretario di cui vi ho parlato: disse il marchese facendo un cenno colla mano per presentare Maurilio, che s'inchinò, alla marchesa ed a Virginia. – Mia moglie e mia nipote: soggiunse poi additandole a loro volta al giovane.
La marchesa aveva fatto un legger cenno colla testa pieno di superbia, e certo avrebbe prestato più attenzione e regalato uno sguardo più cortese ad un cagnolino che le fosse condotto dinanzi; Virginia aveva fatto un piccol saluto sbadato nella evidente preoccupazione onde aveva presa l'anima, e stava per voltar via la testa, senz'altro, quando i suoi occhi cadendo sopra il volto dell'uomo che le veniva presentato, un sovvenire ed un'idea sorsero di subito nella sua mente. Il suo sguardo si fermò su quelle fattezze che le parve avesse già viste altre volte; e da quegli occhi color del mare balenò una fiamma viva cui Maurilio, benchè timido e vergognoso tenesse volti a terra gli sguardi impacciati e la faccia arrossita, sentì arrivarlo, circondarlo, penetrarne entro il cervello il calore. Sollevò allora le pupille ancor egli; lo sguardo della fanciulla era come un'investigazione. «Dove vi ho io visto? pareva domandare: chi siete? che cosa venite a far qui?» Negli occhi di lui c'era tanta ammirazione, tanta devozione, tanta ardenza di affetto che impossibile una donna nulla ne scorgesse; Virginia non vide, non sognò nemmanco che ci fosse, che ci potesse essere dell'amore; scorse, avvertì, sentì che in quel giovane timido e modesto avrebbe potuto avere in un caso un aiuto; glie ne diede un tacito ringraziamento, e prese quasi atto come d'una muta promessa con una mossa gentile e andò a sedersi al solito suo luogo fra lo zio e la zia.
– E mio figlio? domandò il marchese nell'atto di spiegare il suo tovagliolo.
– È uscito or ora, appena levato: rispose uno dei domestici: ed ha lasciato detto che pel déjeuner non sarebbe venuto.
Il marchesino, che contro il divieto del padre voleva battersi quel giorno medesimo con Benda (e già sappiamo come il duello avesse luogo alle tre di quel pomeriggio) aveva pensato miglior consiglio fuggire la presenza del genitore.
Il padre e la madre di Ettore scambiarono un ratto sguardo in cui c'erano un medesimo timore ed un medesimo sospetto; una nube passò sulla fronte del marchese, il quale non fece altre osservazioni nè domande, e di suo figlio non parlò più. Anche sul volto di Virginia apparve, ma dominata e repressa tosto, una espressione di ansietà.
Durante la colazione si fu piuttosto silenziosi. Il marchese parlò talvolta con Don Venanzio ed anche con Maurilio; ma poi, vedendo che quest'ultimo aveva dal suo impiccio la maggior pena del mondo a rispondere, lo lasciò tranquillo; la marchesa rivolse alcune fiate il discorso al prete intorno ad argomenti indifferentissimi e ne ascoltò le risposte come si ascoltano le cose di che non c'importa niente affatto; Maurilio fu per lei come se non esistesse.
Al nostro giovane amico il tempo di quell'asciolvere parve lungo, eterno, e insieme fuggito come un istante. Egli si trovava quasi di fronte a Virginia. Avrebbe voluto guardarla sempre, bearsi nella desiata contemplazione di quel volto leggiadro; e il timore d'incontrare lo sguardo di lei, gli faceva tenere gli occhi fissi inchiodati sul tondo che aveva dinanzi. Ma pure due o tre volte ardì sollevarli, e di nuovo essi incontrarono quello sguardo scrutatore di lei; anzi ad un punto parve al confuso giovane che un'espressione di lieta sorpresa, d'una inesplicabile speranza fosse nell'occhieggiare dell'adorata fanciulla. Ei si disse che ciò era impossibile, che questo era un inganno, che egli non aveva da essere altro per lei fuori d'un estraneo indifferente, ch'ella non poteva in lui ravvisare una conosciuta persona, a meno che riconoscesse il miseruzzo di giovane di libraio che le recò un giorno dei libri, e cui ella non aveva pur degnato d'uno sguardo, o il vagabondo che s'era introdotto un dì nel parco della villeggiatura in cui ella si trovava, e ch'essa medesima aveva visto punire e scacciare come ladruncolo di frutta; ma questo riconoscimento egli aveva sperato e tutto gli faceva credere non potrebbe avvenire, e non sarebbe per esso che gli sguardi di lei avrebbero preso quella che gli pareva ombra d'interesse e di favore. Era dunque una compiuta illusione la sua.
E invece la era una realtà. Virginia non aveva riconosciuto in Maurilio il giovane di libraio, nè il creduto ladroncello del parco, sibbene quell'individuo che poche sere prima, nell'occasione del ballo dell'Accademia filarmonica, ella, nel vestibolo del palazzo dove aveva luogo la festa, aveva veduto in compagnia di Francesco Benda. La nostra memoria ha di queste stranezze: ella, senza che ce ne accorgiamo, riceve delle impressioni e le alloga, per così dire, in qualche suo riposto cantuccio, indipendentemente dal concorso della nostra volontà; ad un dato momento, quando appunto ci diventa più utile il poterci servire di quell'impressione, il trarre in campo il ricordo di quel fatto, di quella circostanza, ella ce lo trae fuori per mettercelo dinanzi fresco, preciso ed efficace.
Virginia, dopo la nuova provocazione avvenuta al ballo la sera prima fra suo cugino Ettore e l'avvocato Benda, non s'illudeva punto sulle conseguenze