La plebe, parte IV. Bersezio Vittorio
palle di neve tirata dalla mano d'uno fra i compagni del nipote, venirla a colpire nella cuffia, mandargliela per traverso e scomporle tutto il poco elegante edifizio della sua capigliatura grigia ed arruffata.
La Gattona piombò sopra il nipote, proprio come uno di quegli animali che avevano avuto l'onore di darle il nomignolo sopra un povero topo, lo ghermì e fece le vendette della sua autorità sconosciuta, dei suoi comandi disubbiditi, della sua cuffia oltraggiata, della sua dignità offesa dalle sghignazzate dei biricchini sulle orecchie di Gognino, cui tirò senza misericordia, non ostante gli strilli del povero ragazzo.
Ma l'incontro di Gognino le fece pure venire in mente una buona idea. Quell'uomo cui la sorte le aveva condotto innanzi così inaspettatamente poche sere prima, ed al quale ora ella credeva essere in grado di rendere un nome ed una famiglia, e studiava appunto di far ciò nel modo che più le fruttasse; quell'uomo avevale promesso dieci soldi al giorno a patto gli conducesse il nipote ad imparare da lui lettura e scrittura. Ora di quel giorno ella aveva trascurato di menargli il bambino e di esigerne le promesse monete; e non ci vedeva nessuna buona ragione di perdere quel tanto. Amministrata adunque la severa correzione alle orecchie di Gognino, la vecchia lo prese ad un braccio, se con buona grazia ve lo lascio pensare, e fattogli deporre la cassetta di fiammiferi sotto il banco d'una rivendugliola sua comare, lo trasse con sè verso la casa dove dimorava il pittore Vanardi coi suoi amici.
Salita su fino all'alto quarto piano ed entrata in quel quartiere che ben conosciamo, la Gattona ci trovò sola sora Rosina la moglie del pittore, la miglior donna del mondo, come sappiamo, ma non delle meno ciarliere. In breve la vecchia che cercava di Maurilio, ebbe appreso tutte le novità che lo riguardavano; e la venuta del vecchio prete di campagna, e l'intromettersi di quest'esso per trovare a Maurilio un impiego, e l'avergli trovato il posto di segretario presso il marchese di Baldissero, e l'essere già Maurilio fin da quella mattina allogato in tal qualità da quella famiglia.
All'udire siffatta novella, la Gattona parve cadesse dal quarto cielo, tanto rimase sbalordita dalla meraviglia. Maurilio in casa dei Baldissero! Se lo fece ripetere parecchie volte, come se la fosse cosa a cui non potesse prestar fede così di piano; ed alla fine, levando le scarne mani verso il cielo, esclamò con un'espressione che faceva pensare a chi sa qual mistero la volesse adombrare:
– Oh Provvidenza! oh Provvidenza!
Sora Rosina non mancò al suo dovere di curiosa stuzzicando con varie domande la vecchia popolana a parlare; ma la Gattona, cosa d'ogni altra più meravigliosa, si rinchiuse nella discrezione d'un assoluto silenzio, da cui fu impossibile farla uscire; anzi troncò senz'altro il colloquio e se ne andò frettolosa dicendo che avrebbe cercato del signor Nulla nel palazzo del marchese: ma non fu colà ch'ella diresse i suoi passi, bensì al convento dei Gesuiti presso la chiesa del Carmine, dove domandò di padre Bonaventura, e dove, non essendoci egli, si fermò fino a tanto che rientrasse, cosa che non avvenne fino al cader del giorno.
Fra il frate gesuita e la pitocca venditrice d'abitini ebbe luogo un altro segreto colloquio lungo ed animato, che si conchiuse colla risoluzione, il frate medesimo avrebbe parlato al marchese ed avrebbe da lui ottenuta udienza a Modestina Luponi chiamata la Gattona.
Ma di quel giorno fu impossibile a chicchessia vedere il marchese di Baldissero, perchè gli avvenimenti capitati presero al vecchio gentiluomo tutto il tempo, e quando, compito quello che credette il debito suo, si ridusse in casa, non volle che nessuno più di estranei, qualunque si fosse, venisse introdotto presso di lui.
Ecco intanto quel che era capitato.
Verso le quattro Ettore di Baldissero rientrava nel palazzo paterno. Virginia, che stava ansiosamente attendendo ed a cui niuna nuova da nessuna parte era ancora pervenuta, appena udì rientrato il cugino, senza badare a verun'altra considerazione più, ma mossa soltanto dall'impulso della sua ansietà, fece pregare Ettore di passare tosto da lei. Il marchesino era troppo galante per tardare ad obbedire a un simil cenno della sua bella cugina.
La ragazza gli venne incontro fin verso la soglia, che Ettore aveva appena varcata; e guardandolo fiso in mezzo agli occhi come chi vuol leggere altrui nell'animo, gli disse con tono di asseveranza come se già sapesse tutto:
– Tu ti sei battuto quest'oggi coll'avvocato Benda.
Fra le tante cose meno degne d'un gentiluomo che Ettore di Baldissero aveva imparate pur troppo, non c'era almanco quella di saper mentire. Chinò il capo in segno affermativo.
Virginia continuava con aspetto pieno di coraggio, benchè fosse pallida ed avesse alquanto affannoso il rifiato:
– Un duello quale deve aver avuto luogo fra voi non si conchiude senza morte o ferita di alcuna delle parti. Tu sei compiutamente illeso…
– Ti rincresce? interruppe con un sogghigno pieno di malignità il marchesino.
La giovane parve non badar neppure alla interruzione.
– È dunque l'avvocato Benda che rimase colpito.
– Tu la ragioni meravigliosamente giusto: rispose Ettore colla medesima ironia.
Virginia impallidì ancora di più e le sue palpebre tremarono un pochino; fu il solo segno di debolezza che apparisse in lei.
– Morto? domandò ella con voce più sommessa.
– No.
– Ah! – Ella fece una breve pausa e mandò più grosso il respiro. – La ferita è grave?
– Non è delle più leggiere: rispose con serietà il marchesino, che a questo punto non ebbe il coraggio più di essere ironico nè impertinente: ma la spero neppure delle più gravi.
Virginia tornò ad affondare i suoi occhi più brillanti che mai negli occhi del cugino, e domandò con una franchezza che svelava in una la forza e la nobiltà del suo amore:
– Vivrà?
– Spero di sì: rispose il marchesino.
Il colloquio fra i due cugini non aveva più ragione di continuare: stettero un istante l'uno in faccia dell'altra, senza saper più che cosa dirsi, finchè egli, tornando a far sentire nel suo accento quel tanto d'ironia, ruppe il silenzio:
– Mi pare che tu non abbia più nulla da dirmi, Virginia?
Ella scosse la segno negativo la testa. Ettore si inchinò leggermente ed uscì con aria disinvolta e quasi ilare, ma con un vivissimo dispetto in cuore. Non gli rimaneva più dubbio alcuno sull'amore di sua cugina per quel borghesuccio, ed egli, colla ferita che a quest'ultimo aveva procacciata, non aveva fatto altro che renderlo più interessante.
Appena sola, Virginia chiamò a sè la sua cameriera.
– Fa di sapere, dissele, se il segretario di mio zio è rientrato; e se sì, digli che venga a parlarmi.
La cameriera guardò stupita la padroncina.
– Va e fa come ti dico.
Aveva un aspetto di tal risoluzione e di comando, mai più visto in lei, che la fante si mosse ad obbedire senza fare pure una di quelle osservazioni che le erano venute in folla sulla punta della lingua.
Ettore, rientrato nelle sue stanze, trovò il domestico che gli trasmise l'ordine del marchese di presentarsi subito innanzi a lui.
– Andiamo da mio padre: disse il giovane fra i denti con un soffocato sospiro che manifestava la malavoglia e il disagio ispiratigli da questo abboccamento.
E ci fu sollecito. Alle interrogazioni del padre egli rispose con franchezza tutta la verità.
– Voi avete disobbedito in una al vostro genitore ed al vostro re; gli disse con severissimo accento il marchese. Nè l'uno nè l'altro non vi possono così agevolmente perdonare: mi recherò da S. M. ad intendere quale punizione voglia infliggere alla vostra pervicacia. Voi aspetterete in casa il mio ritorno.
Il figliuolo s'inchinò in atto di rassegnazione, e il marchese si recò senza indugio a Corte per riferirne al re. Mezz'ora dopo egli rientrava coll'ordine reale: Ettore di Baldissero si recasse incontanente agli arresti in cittadella.
Ma entrando nella vasta sala