Il peccato di Loreta. Boccardi Alberto

Il peccato di Loreta - Boccardi Alberto


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carezza, come avrebbe fatto una madre al più tenero fanciulletto.

      –Suonano laggiù… suonano. Per poco ancora li sentirò. Forse domani sarà tutto finito!

      –Che dici, mamma! – esclamò il professore con voce soffocata, sforzandosi a celare il suo struggicore.

      Ma la signora colle sue dita gli sfiorò la faccia bagnata di pianto:

      –Tu piangi, Mattia. Sì. Non ti veggo più, ma sento che hai le lagrime sul viso. Perche? Tu sei stato un buon figlio sempre. Non ho che da benedirti. Se anche ti debbo lasciare resterà con te la mia benedizione sempre, sempre…

      Poi abbassando la voce:

      –Ed ama Loreta, figlio mio, – aggiunse la signora Sant'Angelo, – amala; essa è buona, ha sofferto, ha pagato coi dolori ogni suo errore; amala: non è indegna di te.

      Dopo quelle parole reclinò il capo stanco, ricadendo in uno stato di dormiveglia placidissimo, interrotto da qualche lieve scotimento nervoso. Si sarebbe detto ch'ella riposasse in un tranquillo sonno se tratto tratto non avesse dischiuso gli occhi volgendoli in giro, come cercando taluno.

      Il medico, venuto nella notte due volte, poi per tempissimo alla mattina seguente, avvertì che la fine era giunta. Ed infatti, prima di sera, la signora Sant'Angelo si addormentò per sempre, senz'alcuna agonia penosa, fra le braccia di suo figlio e di Loreta.

      VII

      Erano passati quasi due mesi dalla morte della signora Chiara. Ma la calma non era peranco rientrata nello spirito del professore. Indarno aveva egli cercato di darsi con febbrile foga a nuovi lavori. Dopo breve tempo si sentiva stanco. Ed a certi momenti, colto da un'improvvisa sfiducia del proprio ingegno, provava dinanzi alle opere sue quel profondo inesplicabile sgomento, che nelle ore dell'amarezza fa sembrare misera illusione tutto ciò che poco prima, al raggio della felicità, appariva circondato dagli incanti della gloria e della vittoria.

      Quante sere, solo, chiuso nel suo studio, aveva lasciato sfuggirsi dalle dita la penna, abbandonando il capo sul dorso della sua seggiola, sopraffatto da un ardente bisogno di pensare al passato. Ed era sempre la stessa lugubre apparizione che lo tormentava: di un corteo funebre, il quale, sotto un freddo cielo d'ottobre, s'avviava frettoloso giù per la lunga strada fangosa, mentre l'aria umida della sera faceva oscillare le fiamme gialle de ceri e sperdeva le preghiere de' preti e de' contadini. Egli si vedeva ancor là, su quella fossa aperta, dove gli pareva che stessero per seppellire ogni suo affetto. E per quanto facesse, non sapeva liberare il suo cuore da quel senso di gelida mestizia onde fu vinto nel rientrare poi nella sua vecchia casa, priva ormai dell'angelo buono che gliela rendeva così cara.

      Il professore dopo quella disgrazia aveva provato quasi una voluttà nel cercare la solitudine. Si alzava all'alba ed entrava nel suo studio, uscendone di rado, pregando perfino talvolta Loreta che gli facesse recare il pranzo colà. Verso il tramonto andava a fare una passeggiata in mezzo ai campi, evitando di passare per i villaggi, salutando appena i conoscenti in cui s'avveniva. Poi rientrava, mandava giù un boccone svogliatamente e si ritirava nelle sue camere.

      Gli amici di Tricesimo, che sulle prime eran venuti replicate volte a prendere sue notizie, a poco a poco, dinanzi al contegno freddissimo del professore, avevan cessato dalle visite, convinti di riuscirgli molesti. Taluno di essi non mancò neppure di aversene a male, e tra questi specialmente il conte Leonardo Mangilli, che s'arrabbiava di veder riuscire inutili sull'animo dell'amico tutti i conforti ch'egli procurava di recargli con i suoi predicozzi altisonanti di uomo spregiudicato.

      Tolto a' suoi studî, il professore non aveva la testa a nulla. Degli interessi di casa non s'occupava punto: di tutto quanto riguardava l'azienda economica de' suoi poderi, non voleva udire a parlare. Quando i coloni venivano o per pagare gli affitti o per ricevere qualche disposizione, e la Vige, piena di titubanza, recavasi a bussare alla porta dello studio per avvertirne il padrone, questi si sentiva profondamente contrariato, e talora lasciavasi andare a vive parole d'impazienza.

      La Vige tutta intimorita scusavasi del suo meglio: non sapeva come fare, vi era forzata.

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