Il peccato di Loreta. Boccardi Alberto
a tratti, quando le raffiche del vento venivano, giù dalle gole nevicate della Carnia, a rompersi con impeto contro la casa facendone tremare i vetri delle finestre, la signora Chiara deponeva il lavoro:
–Che brutta notte, oggi! L'inverno in queste campagne è assai triste. Per coloro poi che non ci sono avvezzi… Voi, mia cara Loreta, dovete trovarvi assai male.
–Male? Ma che dite, signora! Qui per me è il paradiso. Se Dio non mi avesse protetta mandandomi il soccorso provvidenziale che voi mi avete offerto, che cosa sarebbe di me? Si apprezza il bene solo quando si è imparato che cosa sia la sventura!
–Sì, sì, figliuola mia; ciò che dite mostra il vostro bell'animo. Ma via, siete tanto giovane ancora: la vostra mente deve volare ben lontano da queste nostre solitudini così fredde!
–Lontano! Ma dove mai? No, signora Chiara. Al di là della soglia di questa casa benedetta, dove ho trovato tanto tesoro di amorevolezza e di pietà, non c'è più nulla per me. Al di là non ho lasciato nulla: nulla al'infuori di memorie dolorose. E guai per me se non fossi riuscita a cancellarle dall'anima mia!
In quelle conversazioni Loreta aveva anche accennato più volte a suo padre, e talora aveva pure insistito nel discorso a malgrado che la signora Chiara, con gentile sentimento, nulla avesse fatto mai per indurla a confidenze ed anzi si fosse tenuta in proposito nel riserbo più delicato.
I giovani anni di Loreta erano stati infelicissimi. Sua madre, Camilla Sant'Angelo, era morta presto, trentenne appena, coll'illusione beata che alla bambina sarebbero riserbate le più dolci tenerezze dell'affetto. Prospero Lambertenghi glielo aveva promesso dandole l'ultimo bacio e fu con questo pensiero tranquillante che la poveretta si spense. Ma Prospero obbliò assai presto. Carattere volubile, dominato dalla sete de' pronti guadagni, insofferente di una vita umile e regolata, dopo breve tempo sentì il peso dell'esistenza a cui le contingenze della sua famiglia lo costringevano. Nei primi tempi il pensiero di dedicarsi tutto alla felicità di quella povera creatura, che, col suo vestitino da lutto lo attendeva sul limitare del loro quartiere, compensandolo col suo sorriso d'ogni fatica, gli era apparso bellissimo e pieno di poesia. Poi più tardi, quando nuovi arditi progetti di intraprese larghissime gli balenarono alla mente; ne' giorni nervosi, quando la cerchia ristretta delle pareti domestiche apparì, al suo spirito ansioso di voli infrenati, simile ad una prigione, quella bimba gli sembrò un ostacolo posto fra lui ed il raggiungimento de' suoi ideali. Non voleva essere lo schiavo di stupidi platonismi. Finalmente col bene proprio avrebbe fatto pur quello della bambina. Al suo cuore, che talora gli opponeva un palpito affettuoso, impose il silenzio. E si lanciò nel mare magno degli affari, delle imprese arrischiate, in que' giuochi ardimentosi, in cui il segreto del trionfo sta quasi interamente nel freddo disprezzo di ogni contrarietà della sorte.
Quale poteva essere la vita della giovanetta ognuno può immaginare. Affidata a mani mercenarie, la sua educazione fu fiacca, incerta, senza una guida severa, priva totalmente di quelle influenze benefiche che la vigilanza dell'affetto apporta ed assicura. L'istinto del bene, innato nell'anima sua, corse i maggiori pericoli di essere vinto ed attutito. Gente strana, esempî tristi e brutali, passarono intorno a lei, pericolosamente. Nella casa, nulla che valesse a inspirarle un sentimento di nobiltà od a metterle nel core un palpito di entusiasmo. Ricordava in confusione una folla di persone equivoche, che suo padre riceveva continuamente; ricordava certe notti rumorose, nelle quali giungevano fino alla sua stanza di fanciulla, voci concitate e clamori di canti. Del padre non ricordava nè baci, nè carezze. Era un uomo freddo, di poca espansione, di modi aspri. Una mattina la sua governante le annunciò ch'egli era partito: partito per un viaggio lontano, reclamato da urgenti interessi, che compromettevano ogni loro avere. Non l'aveva salutata neppure: il tempo gliene era mancato; ma stesse di buon animo: egli non l'avrebbe dimenticata un solo momento.
Questa partenza non turbò gran fatto l'animo di Loreta. Era abituata alle stranezze di suo padre. Provò invece un turbamento infinito, un'oppressione potente, quando un giorno, per puro caso, udì dalle labbra di un servo la ragione che dalla gente si attribuiva alla precipitosa partenza di lui. Era un'accusa infamante, che le chiamò il rossore al viso e l'amarezza nel cuore. Lottò per non crederci, per rompere il fatale incubo di quel sospetto, per raccogliere le prove che contro suo padre si fosse ordita dall'altrui malignità non altro che una bassa calunnia.
Ma non potè. Gli indizî tutti congiuravano a distruggere ogni pietoso sentimento che nel suo cuore restava… Suo padre non solo l'aveva abbandonata, ma a poco a poco obbliò perfino di mandarle i necessarî soccorsi. A diciott'anni Loreta si trovò sola, senza consigli, senza conforti, sul limitare della vita, esposta a tutti i pericoli ed a tutte le seduzioni.
Che fare in quel frangente? Ancora una volta il suo ingenito senso di onestà e di coraggio le fu scorta. Suo padre se non altro le aveva fatto dare un'educazione sufficiente. E questa doveva bastarle a guadagnarsi un pane onorato. Bisognava rassegnarsi a servire rinunciando a tutte le idee di indipendenza e di benessere, che un tempo le avevano arriso. E seppe rassegnarvisi animosamente.
–È stata una prova difficile! – soggiungeva Loreta. – E credetti di poter in essa trovare la felicità!.. Per un tempo, sì, mi parve anche di esservi riuscita. Ma una delusione ben più grande mi aspettava. Quel che ho sofferto… Guai per me se volessi risuscitare i ricordi!..
Il discorso così fu tronco più volte. Le confidenze che Loreta aveva fatto alla signora Chiara s'erano sempre arrestate a quel punto.
La prima volta in cui l'ottima signora potè apprendere dal labbro della giovane un più particolare accenno ai fatti che avevano da ultimo amareggiata la sua vita, fu improvvisamente in una brutta giornata, nella quale i Sant'Angelo ebbero a soffrire per causa sua una grande emozione.
Da più giorni la Lambertenghi mostravasi singolarmente abbattuta e preoccupata. Alla mattina, come di solito, scendeva per tempissimo dalla sua stanza, mettendosi tosto alle usate faccende. Ma a nessuno di casa sfuggivano le tracce dell'insonnia o del pianto, ch'ella aveva costantemente negli occhi pensosi. Forzavasi di mostrarsi vivace, metteva nella esecuzione delle faccende domestiche una foga speciale; alla signora che le moveva qualche domanda se si sentisse male ed alla Vige che si arrabbattava per toglierle di mano qualche lavoro, assicurava che non aveva nulla. Però a sera, verso le nove, dopo aver tenuto per un poco compagnia alla signora Chiara, ella chiedeva con manifesto dispiacere di potersi ritirare. Diceva di sentir bisogno di riposo, di avere la testa confusa e indolenzita. E se ne andava scusandosi, rammaricandosi di dover lasciare la signora, ringraziando per le premure con cui tutti si interessavano a lei.
–Non è nulla, ma nulla affatto. Un po' di sonno… Ecco la miglior medicina.
La Vige che stava ad udirla con grande attenzione, fissandole in viso gli occhi buoni, profondamente, tentennava allora il capo, e appena ell'era uscita, volgendosi alla signora Chiara:
–Medicina, sì! – mormorava sottovoce. – La sua medicina sono le lagrime. Il sonno, il riposo… A chi lo racconta? Povera signorina, mi fa tanto male!..
–E a me! – soggiungeva la signora Chiara. – Ma bisogna mostrare di non accorgersi di nulla. Il tempo… Vedrai, le passerà!
Pochi giorni appresso, una mattina verso le sette, che la Vige era appena scesa in cucina per accendere il fuoco e preparare la colazione, vide uscire dalla sua stanza anche la signorina. Vestiva il suo solito abito nero, ma aveva lo scialle e un velo in testa, come pronta ad uscire. La domestica spalancò tanto d'occhi. Loreta non scendeva mai così presto; poi… uscire col tempaccio che faceva! Infatti, durante la notte un violento uragano si era scatenato, ed ora sulle campagne allagate spirava un fortissimo vento.
–Signorina, esce?
La Lambertenghi, assai pallida, si fermò un po' contrariata:
–Sì, vado in chiesa.
–Ma con questo tempo! C'è un bel tratto. Vuole che chiami Agnul che attacchi il carrozzino?
–No, grazie, non monta. Non vi date pensiero.
Ed usci.
La povera Vige non potè frenare un gesto d'impazienza. Aveva un bel dire la sua padrona che bisognava fingere di non accorgersi di nulla! Ma vedere certe bizzarrie e cucirsi le labbra era davvero un po' troppo! La buona donnetta non poteva darsi