Il peccato di Loreta. Boccardi Alberto
vecchia signora in punta di piedi andò allora presso un altro uscio e curvatasi, con una certa fatica, che la sua età spiegava, a guardare attraverso la toppa:
–Eh! sì! Ci pensa al desinare lui! È là a cavarsi gli occhi con le sue eterne monete!
Poi, timidamente, quasi col timore di chi sta per imprendere un atto sconsigliato, schiuse pian piano l'uscio:
–Mattia.
Il professore volse il capo.
–Oh! mamma! – esclamò sorridendo.
–Il pranzo aspetta.
–È mezzogiorno di già?
–Suonato da un pezzo.
–Eh! questo tempo che scappa così!
E si levò dal seggiolone di canna ricurva, si tolse gli occhiali che depose diligentemente sur un mucchio di carte, prese il suo fazzoletto turchino che giaceva lì accanto, e dopo avere con esso detersa la fronte tutta bagnata, venne con ciera allegra incontro alla signora:
–Scusami, la mia povera vecchietta. Eccomi qua e con una fame: con una fame che guai se il pranzo non è proprio eccellente!
Passò il braccio intorno alle spalle della madre e celiando insieme, com'era loro costume, andarono a prendere i loro posti.
Vige entrò. Coll'aria tra modesta e superba di un artista il quale presenti solennemente una propria opera che sa riuscita un capolavoro, posò in mezzo alla tavola un bel pasticcio fumante, appetitosissimo al solo guardare la sua crosta dal colore di oro.
–Benone! – esclamò il professore Mattia. – Proprio quello che ci voleva! Il pasticcio di polenta che mi piace tanto e che la Vige quando vuole sa far così bene!
–Eh! oggi poi… – rispose la servetta tutta inorgoglita dagli elogi-Agnul ha portato stamane dall'uccellanda dodici tordi così grassi e belli… Vedrà, vedrà!
La signora Chiara tagliò il pasticcio. E il professore si mise a mangiare con grande appetito, lasciandosi sfuggire delle esclamazioni di plauso, che se facevano sorridere la signora Chiara, mandavano addirittura in solluchero la bravissima cuoca.
–Eh! mi viziate voialtre con questi bocconcini da principe. Mi viziate!
E il desinare proseguiva così, allegro. Allegro come del resto esso era ogni giorno in quella casa.
Poichè il professore in quelle ore si trasformava, e davvero bisognava sorprenderlo in tali momenti per farsi un esatto giudizio sul conto suo. Abituato a starsene tanto lungamente chiuso nel suo studio, curvato a leggere vecchi volumi, ad esaminare con la lente monete e medaglie, a classificarle per ischede con una pazienza da certosino, quando usciva di là e trovavasi presso sua madre diventava un altro uomo. Allora voleva, secondo la sua espressione, rifarsi del tempo perduto. E si divertiva a parlare di mille cose, di tutte le futilità della vita casalinga, di tutti i pettegolezzi del borgo, contento di vedere sua madre che ci prendeva interesse, che s'incaloriva nelle discussioni e si divertiva alle sue facezie.
Talora anche parlavano de' loro interessi, del raccolto sperato, de' contratti coi loro affittaiuoli: discorsi codesti a' quali il professore amava di tagliar corto: se ne intendeva così poco, c'era la mamma che faceva lei e faceva tutto tanto bene!
Più di rado assai, chè Mattia evitava con molto tatto quegli argomenti, evocavano qualche ricordo del passato. Allora la signora Chiara si faceva triste, il professore si metteva a tormentare con le dita la sua fluente barba un po' brizzolata, e finivano tutti e due per cercare cogli occhi inumiditi in alto sulla parete un'immagine seria e severa, che parea li guardasse affettuosamente giù dalla cornice di legno dorato.
Quel giorno però i pensieri melanconici sembravano messi in bando. Il professore era anche più loquace e ridanciano che non fosse suo costume. Come avviene a tutti coloro che dedican la loro vita alle minute ricerche storiche e provano un'immensa soddisfazione ne' momenti in cui riescono a sciogliere taluno di que' dubbi sottili, intorno a' quali si tormentano senza requie il cervello, quel giorno il professore Mattia sentivasi esultante. Era finalmente pervenuto a mettere in chiaro alcuni punti controversi in un lungo suo studio sulle antiche zecche di Aquileia e di Gorizia. L'opera che gli era costata cinque anni di lavoro poteva così dirsi compita. E questo, per il professore Sant'Angelo, era il raggiungimento della più cara fra le sue aspirazioni.
–Ah! mamma mia, come sto bene quest'oggi! È da un gran pezzo che non feci tanto onore a' tuoi buoni piattini, cara la mia vecchietta.
E con grande soddisfazione della signora Chiara e anche della Vige, che gli voleva un bene dell'anima, si pigliava sul piatto un'altra bella fetta di pasticcio.
Fu verso la fine del pranzo, mentre la Vige poneva in tavola un corbellino di magnifiche prugne e d'uva mora, che il professore Sant'Angelo e la signora Chiara ebbero una grande sorpresa.
Improvvisamente sui ciottoli dei cortile si udì il rotolìo di una carrozza che entrava, salutata dall'abbaiare insistente del cane di guardia.
–Oh! chi c'è mai a quest'ora?
La Vige si fece alla finestra, socchiuse le imposte verdi che in causa del sole eran unite a libro, e, data un'occhiatina al di fuori, proruppe in un'esclamazione di meraviglia:
–Guarda, guarda! Prè Letterio…
Il professore, come udendo il nome di un amico desiderato e diletto, balzò in piedi:
–Prè Letterio!
E seguito dalla mamma andò frettoloso all'uscio per incontrare il nuovo arrivato.
Intanto fuori, nel gran sole che inondava il cortile, il carrozzino erasi fermato e il piccolo Agnul, il ragazzo cui era affidata la cura della stalla, aveva preso per la briglia il cavallo. Un vecchio prete, che era solo nel carrozzino, ne discese un po' lentamente e mosse verso il professore colle braccia aperte.
Si baciarono con affetto; quindi, stretta la mano alla signora ed alla Vige, l'ospite s'avviò alla casa.
–Ma che bella sorpresa, Prè Letterio, che bella sorpresa!
–Non m'aspettavate così presto, è vero? – diceva il prete sedendo nel seggiolone che la Vige aveva rotolato per lui accanto alla tavola. – Eppure sono già sette settimane dal giorno della mia partenza.
–Perchè non scrivermi un rigo del vostro arrivo? Sarei venuto io a Udine per vedervi, Eppoi vi dobbiamo fare un grande rimprovero. Ci avete lasciato per tanto tempo senza vostre notizie…
–Eh! forza maggiore, amici miei; non certo mancanza di volere. Sono settanta suonati e un viaggio così lungo, con tanti pensieri…
–Avete dovuto affaticarvi assai?
–Sì, molto. Ma ne sono contento: ho trovato così buone accoglienze! Però quanto m'è toccato di correre in quella benedetta Roma! Da un ufficio all'altro, da una parte all'altra della città… Certe distanze! Ma poco monta. La morale è di aver ottenuto quel che speravo.
–È una bella soddisfazione, Prè Letterio! – disse la signora Chiara. – Come i vostri poverelli vi dovranno benedire!
–Sono i miei figliuoli! Se il buon Dio mi consente di provvedere al loro bene, a me non resta altro da domandargli.
Don Letterio Prandina era un ottimo sacerdote. Ultimo discendente di una nobile e ricca famiglia di Cividale, contristato ne' suoi giovani anni da molti dolori, si era dato per vocazione al sacerdozio, consacrando a quella ch'egli intendeva come un'alta missione di d'amore, nonchè tutta la sua intelligenza bellissima, l'intero patrimonio. Compiuti appena i suoi studi sollecitò ed ottenne di andare come missionario in terre lontane e ne ritornò con molta letizia per i risultati ottenuti nel suo apostolato. Il suo libro, pubblicato intorno al '5 dai Bollandisti di Bruxelles, De missione canonica, è tuttodì ritenuto come opera di alto valore, non solo religioso, ma anche scientifico. Indi, costretto da debole salute a fermare il suo domicilio in patria, continuò a dedicare l'attivissima vita ad opere di carità, così che a lui si dovette la fondazione di parecchi tra i più utili istituti di beneficenza che conti il Friuli. In Udine aprì egli, sorretto dal peculio civico e dall'appoggio