Il peccato di Loreta. Boccardi Alberto
alcune gravi questioni d'interesse, concernenti la dotazione di codesto istituto, ch'egli aveva voluto recarsi di persona a Roma.
–Dunque, Prè Letterio, – disse allegramente il professore Mattia, versando del vino nel bicchiere che Vige s'era affrettata a recare per l'ospite, – quei signori a Roma non sono poi tanto dispettosi come qualcheduno si piace di descriverli…
–Ma che! Lasciamo gracchiare i cattivi, che ne hanno interesse! Quando stavo per partire mi avevano messo tanti scrupoli: "vedrà che butta i denari del viaggio; vedrà che col suo abito da prete non le daranno il più piccolo ascolto: vedrà questo, vedrà quello…" Vidi una cosa sola: che alle porte dove ho battuto in nome dei miei poveri, ho trovato accoglienze le più cordiali e che dal ministro, al quale ho chiesto udienza, mi vennero offerte tutte le facilitazioni possibili…
Il prete pareva soddisfattissimo nel dir queste cose, Nè il professore sembrava meno lieto di udirle a dire.
–Eh! sì, – riprese don Letterio, dopo aver aspirato con lentezza una presa di tabacco, – della gente buona ce n'è ancora. E fa bene di incontrarla in mezzo a tante amarezze che ci tocca di subire nella vita. Vedete, amici miei, anche in questo viaggio… Ero contento, me ne tornavo felice; e proprio agli ultimi giorni…
–Vi è avvenuto qualche cosa di triste? – domandò premurosamente la signora Chiara.
–Che cosa mai? – soggiunse con pari interesse il professore.
–Sì, qualchecosa che mi rammaricò profondamente e farà dispiacere a voi pure, amici miei.
–Don Letterio, ci mettete in una curiosità!
–È un incontro che io feci otto giorni sono per un capriccio bizzarro del caso o piuttosto (si corresse il prete con una dolcezza serena nella voce) per il benefico volere della Provvidenza. Ve lo avevo detto quando partivo: nel mio ritorno avevo divisato di fermarmi qualche giorno in un piccolo luogo della Toscana a metà della strada fra Firenze ed Arezzo. C'è là un mio cugino, curato in quella pieve: non ci vedevamo da più di ventisette anni…
–Ebbene?
–Feci quanto avevo stabilito. Fui accolto a braccia aperte, come un fratello. Così contento com'ero, mi parve una vera benedizione di potermi riposare un poco senza pensieri, in quella casa ospitale, nella fresca ombra di quell'orto, che il mio vecchio amico si coltiva da sè. È un santo prete: un'anima giusta veramente, capace di qualunque sacrificio per il bene del prossimo.
–Vi somiglia, don Letterio.
–Fa il suo dovere come me: nient'altro. Ma ne raccoglie il più grande dei conforti: la benevolenza generale. Vi racconto tutto questo per venire a quanto mi preme.
–L'incontro che avete fatto, don Letterio? – chiese la signora Chiara.
–Appunto… Fra due amici che da tanto non si sono incontrati, si hanno sempre mille cose da narrarsi!.. E fu così, che tra una chiacchiera e l'altra, l'amico mio fu tratto ad espormi, non so proprio più come, anche un caso assai triste, avvenuto allora allora nel suo piccolo paese. Si trattava di una maestrina, una giovane che veniva da Vicenza e che il municipio, sulla fede di eccellenti certificati presentati al concorso, aveva assunto per la scuola popolare del borgo… Quando ella s'era presentata-narrava mio cugino- tutti quanti ne avevano avuta una profonda impressione. Era una povera ragazza, bellissima di volto, ma coi segni così vivi di un grande dolore da inspirare in tutti gli animi il più caldo interessamento. Seria, modesta, intelligentissima, s'era data al proprio dovere con la massima solerzia; e tanto più i conoscenti, che aveva già numerosi e buoni, si rammaricavano nel vederla sempre così sofferente. Un bel giorno corse per il paese una curiosa voce-La giovine maestra stava malissimo; era stata trovata nella sua stanza in uno stato dei più allarmanti; e fu solo per effetto degli energici soccorsi s'ella potè essere salvata da una certa morte… Taluni vollero-e la cosa, mormorata dapprima vagamente, assunse a poco a poco una certa verosimiglianza-che si fosse trattato di un tentativo di suicìdio…
Il prete si riposò un istante, indi proseguì:
–Breve: la giovane venne salvata. Ma la malattia fu lunghissima e grave. C'era là un forte dolore da confortare, una grande miseria da lenire, e mio cugino intervenne pronto. Soccorse quella povera creatura, ch'era buona ed infelice, come meglio gli fu dato, e coi fatti e colle parole. Ella si ristabilì a poco a poco, ma il medico dichiarò ch'ella sarebbe stata ormai nella impossibilità di riprendere, senza tema di una ricaduta mortale, le fatiche dell'insegnamento. Il comune-un comunello non ricco-le elargì qualche sussidio; poi, per quanto a malincuore, dovette metterla in disponibilità…
–Povera giovane!
–Povera davvero!.. Fu appunto in quei giorni, dopo averne appreso la tristissima storia, ch'io stesso la vidi in casa del mio amico. Vi era venuta a supplicarlo di raccomandarla presso a qualche famiglia di conoscenti per farle ottenere un posto di istitutrice, di cameriera… un posto qualunque pur di vivere onoratamente. Mi fece pietà. Ben di raro ho visto una faccia più dolcemente buona e rassegnata; ben di raro intesi una parola più soave o piena di tristezza. Mi fece pietà ancor maggiore quando io seppi il suo nome…
–Qual nome? – domandò subito il professore.
–Loreta Lambertenghi.
–Loreta! – esclamò la signora Chiara con grande sorpresa. – Loreta, la figlia di Prospero Lambertenghi!
–Sì, la figlia di Prospero Lambertenghi e della povera Cannila Sant'Angelo. Ah! è stata ben fortunata la povera Camilla di morir così presto per non vedere il triste destino riserbato alla sua creatura!
–Ma dunque il Lambertenghi?
–Ha finito la sua miserabile esistenza. È morto a Sidney, in un ospitale di suore francesi, dieci mesi sono. La notizia della sua morte deve aver portato un ultimo colpo sulla salute malferma della sua sfortunata figliuola.
–Poveretta, poveretta! – sclamò la signora Chiara con accento commosso.
E un improvviso silenzio si fece fra i tre interlocutori di quella scena.
Prè Letterio aveva compreso la penosa impressione destata dal proprio racconto nell'animo del professore e di sua madre. Eglino sentivano entrambi risvegliarsi in quel momento tanti ricordi, che il tempo aveva addormentali in fondo ai loro cuori.
Dall'epoca in cui il dottor Giovanni Sant'Angelo, compromesso in complotti politici, era stato costretto a riparare in Isvizzera, pochi rapporti aveva egli più avuto colla famiglia della sorella. Col cognato, Prospero Lambertenghi, non erano mai andati d'accordo; diversità d'indole e di sentimenti gli aveva tenuti discosti. Quando, dopo sedici mesi da che il Sant'Angelo trovavasi a Ginevra, giunse la notizia che Camilla era morta, rapita in breve tempo da un fiero morbo, ci fu un momentaneo ravvicinamento de' due cognati. Allora nelle lettere, scritte da ambo le parti sotto la impressione di quella sventura, molte cose dolcissime furono dette a proposito della povera bimba, Loreta, che restava a cinque anni senza il conforto amoroso della mamma. Indi tutto cambiò. Da un lato le fortunose vicende di que' tempi, dall'altro alcune brutte voci corse sulla condotta del Lambertenghi, valser, a rimettere un nuovo gelo tra le due famiglie. Come in simili casi avviene? nè dall'una parte nè dall'altra fu più nè desiderato nè tentato un riavvicinamento, I Sant'Angelo avevano udito per mera combinazione di grandi viaggi impresi dal Lambertenghi; avevano vagamente saputo che la giovane sua figlia, uscita da un educandato, s'era data a fare l'istitutrice. Più in là, nulla. Le ultime novelle le avevano ricevute quel giorno per bocca del prete Letterio.
Dopo un lungo silenzio, la signora Sant'Angelo tornò a mormorare, come a conclusione di tutto ciò che le era ripassato nella mente:
–Povera creatura, povera creatura!
–Eh! – fe' il prete con un profondo sospiro, – sarebbe un'opera ben meritoria il porgere una mano a questa sventurata!..
Il professore, serio, colle dita sprofondate nel suo barbone, guardava fissamente la madre come per leggerle sul viso ciò ch'ella pensava.
Poi ad un tratto:
–Potendolo fare! – disse a mezza voce. – Potendolo… sicuro!
–Potendolo,