Il peccato di Loreta. Boccardi Alberto
donne, per indole loro e forse loro malgrado, hanno quasi sempre dinanzi ad ogni fatto il quale serri una minaccia per la tranquillità de' loro cari. Chiara Sant'Angelo, di innata indole gagliarda, era cresciuta alla scuola di esempi fortissimi. Nella sua famiglia aveva imparato come si debba amare la patria. Suo padre gliene aveva lasciato colla propria morte l'esempio maggiore.
Ma vennero giorni cattivi. E furono durissime le prove a cui l'animo de' coniugi Sant'Angelo venne sottomesso.
Il dottore Giovanni, mosso da troppo imprudente zelo, lanciatosi con foga malcauta in un arduo e complicato piano, che per la stessa sua audacia presentava ben poca probabilità di riuscita, si trovò improvvisamente sotto il peso di una gravissima accusa d'alto tradimento. Era a Verona con la moglie quando gli giunse da parte fidata l'annuncio che un mandato di cattura era stato spiccato contro di lui. Depositario di moltissime carte importanti, dalla scoperta delle quali sarebbero stati compromessi pericolosamente non pochi amici suoi, egli comprese la gravità della sua posizione. E pensò alla fuga, Ma come? Ostacoli immensi vi si opponevano. Eludere le ricerche rigorose e sollecite, che sapeva incominciate, gli parve follia. E sua moglie? Ed il figlio? Per un istante disperò e si credette vinto.
Ma non calcolò sulla generosità di un amico, il conte Gottardo Polverari di Verona, suo antico ed affezionato compagno di studi, involto al pari di lui nel piano che ora stava per essere scoperto e del quale aveva avuto con qualche altro consorte la prima idea.
Il Polverari, riconoscendo, nella nobiltà del suo cuore, come più che a tutto, ad un suo malconcepito disegno si dovessero le circostanze fatali in cui si trovavano, dichiarò con disprezzo della vita che se infine aveva errato, intendeva pagare di proprio l'errore commesso. E facilitando la salvezza al Sant'Angelo perdette sè stesso. Il conte Polverari morì quattro anni dopo, lontano dalla patria, lontano dalla sua adorata famiglia, nella fortezza di Theresienstadt. Il Sant'Angelo riparò colla moglie a Ginevra, ove trasse una vita ritiratissima, attendendo quasi esclusivamente alla educazione del suo Mattia.
Fu circa dopo dieci anni di soggiorno in Isvizzera che il dottor Giovanni Sant'Angelo, assalito da un lento male mancò a' suoi cari, lasciando dietro di sè il più vivo dolore e la memoria più venerata.
Percossi da quella immensa sventura la signora Chiara e suo figlio viaggiarono qualche tempo, poi stanchi, col bisogno profondo del riposo, tornarono melanconici alla patria loro e ripresero stabile dimora nella vecchia casa dove gli attendevano tanti ricordi, grati e tormentosi per il loro cuore.
La vedova Sant'Angelo aveva ormai concentrata la propria esistenza in un unico pensiero: la felicità e la riuscita del figlio suo.
Ella non vedeva, non respirava che per il bene di lui, circondandolo delle cure più gelose, de' riguardi più attenti.
Vero angelo protettore di quel suo adorato, ella esultava al vederlo crescere sano, forte e felice.
Nè le previdenti premure materne rimasero senza frutto, chè la giovinezza di Mattia trascorse, in mezzo alle splendide campagne native, placidissima e serena, non conturbata mai nè da alcuna irrequieta aspirazione, nò da alcuna contrarietà.
Bisogni non ne avevano. Le loro terre, il piccolo patrimonio, bastavano per poter condurre un'esistenza senza sopraccapi. Poi la signora Chiara era quel che si dice una massaia coi fiocchi. Economia fino all'osso in casa; vigilanza con cent'occhi sui campi; buona con tutti, ma intransigente ogni volta che ci andavano di mezzo gli interessi, la signora Chiara valeva per dieci e non v'era pericolo che nessuno la potesse danneggiare nemmen di un quattrino.
Così, senza pensieri, senza neppure la più piccola noia inerente all'amministrazione de' suoi beni, Mattia Sant'Angelo si fece un uomo.
Il giovane, pieno d'ingegno e costretto dall'abitudine, dall'ambiente e un po' anche dall'indole propria riflessiva, si dette con trasporto agli studi. Suo padre aveva radunato nella loro casa una grande biblioteca, composta per la maggior parte di opere scientifiche, d'archeologia e di storia, ed anche aveva lasciato un ricco medagliere, cominciato ancora ne' primi anni dopo il suo ritorno dall'Università e nel quale si contavano intere e pregevolissime serie di monete, delle antiche zecche del Friuli, dell'Istria e di Venezia.
Mattia Sant'Angelo si innamorò di quegli studi. Essi gli destavano nel cuore molti e soavi ricordi. Rammentava come suo padre si facesse un orgoglio di quelle collezioni, alle quali aveva pensato persino negli ultimi tempi di sua vita, in terra straniera. E attratto sempre più dall'interesse delle ricerche, lusingato dai primi successi ottenuti, il giovane, rinunciando ad ogni altra ambizione, se ne viveva contento. In casa, nelle due ampie stanze terrene, onde vedeva tanta estensione, di bella campagna, a poco a poco, a furia di spese sapienti e di cure indefesse, si era venuto formando un vero museo.
E là, fra le vetrine, dove le vecchie medaglie diligentemente classificate posavano in file ordinate nelle loro scatoline di cartone, in mezzo a' suoi libri rari, tra le pareti ornate di armi antiche, dinanzi al suo enorme tavolo dove s'accatastavano codici e pergamene, istrumenti di saggio e manoscritti, il giovane studioso passò lunghi anni, tutelato, dalla pavida vigilanza di sua madre, contro ogni soverchia emozione.
E degli anni ne passarono molti. Ne passarono tanti che già sui capelli del Sant'Angelo-del professore Sant'Angelo, come erano avvezzi a chiamarlo in paese, – era caduta una prima brinata.
–Eh! eh! sono un vecchio oramai! – il professore diceva scherzando. – Sono un vecchio per tutti, tranne per questa mia santa mamma che adoro!
E per lei era infatti sempre come una volta, un ragazzo ubbidiente e buono, che aveva bisogno de' suoi baci, che aveva la necessità delle sue parole confortatrici, che si sentiva consolato dalla sua presenza.
A questo modo scorreva da molti anni pacifica la vita nell'antica casa dei Sant'Angelo.
Se taluno qualchevolta chiedeva al professore se egli non desiderasse nulla, se non aspirasse a qualche mutamento come infine il suo sapere, la sua bontà e la sua posizione gli avrebbero concesso di sperare, rispondeva immutabilmente levando le spalle, in atto di un filosofo timoroso delle molestie che sogliono arrecare le cose nuove:
–Mutare! Perchè? Così, accanto a mia madre ed in mezzo a' miei studi, sono tanto felice!
II
-E dunque, Vige, siamo all'ordine? – domandò la signora Chiara affacciandosi all'uscio dell'ampia cucina, che un bel sole d'ottobre penetrando dai due finestroni spalancati allietava di festevole luce.
Vige, la contadinotta che stavasene intenta al focolare, alzò il capo dalle marmitte, in cui cuocevasi il desinare della famiglia:
–In pochi minuti, signora. E poi al mezzogiorno ci manca ancora.
–Non ci deve mancare mica molto. E sai che il signor Mattia…
–Eh! lo so che a lui l'attendere non piace…
In quel momento stesso dalla chiesa di Tricesimo uno scampanìo allegro annunciò le dodici.
–Mezzogiorno! – disse la signora Chiara. – Affrettiamoci.
La domestica allora si mise in grandi faccende intorno al suo focolare. Coll'aiuto delle molle, scoperchiò una padella e soffiato sul fumo profumato che ne uscì in una densa nube, guardò con occhio esperto se il punto di cottura fosse soddisfacente:
–È pronto! – esclamò poi. – Il professore oggi sarà contento.
E in fretta, slacciatosi il grembialone di tela bigia che aveva dinanzi, staccò da un chiodo un altro grembiale bianco di bucato, che si legò alla vita; si diè una sciacquatina alle mani in una catinella, poi soggiunse tutta sorridente:
–Ed ora appena il professore esce dal suo studio metterò in tavola.
La signora Chiara, colla tranquillità della padrona di casa che sa ormai tutto quanto bene disposto, passò nel tinello e, attendendo che il figlio uscisse dalle sue stanze, si occupò ancora a mettere in una più precisa posizione i vari oggetti sulla mensa preparata.
Ma il professore tardava.
–Viene? – domandò Vige comparendo sull'uscio.
–Ma… non so.
–Lo