Mezzo secolo di patriotismo. Bonfadini Romualdo
de son nom cette trame odieuse„, e se ne appellava alla stessa sorella di Bonaparte, Carolina Murat, donna di maggior senno e di maggiore energia del marito.
Degli intriganti parigini scriveva col più grande disdegno e si meravigliava che presso le alte influenze del Governo avesse “le plus grand jeu la faction de l'ancien gouvernement qui est celle des voleurs.„
Circa le violenze poi che Bonaparte imponeva o consigliava contro avversarj politici, rispondeva: “je crois fermement qu'il y aurait de la folie à combattre les folies, les erreurs, les passions des hommes par la force, car la force leur donne un caractère extrêmement plus dangereux par la réaction qu'elle provoque. Je crois également qu'il est juste et nécessaire de punir les actes ou faits qui portent un caractère criminel. Toute ma conduite a été réglée sur cette distinction.„
Non vi pare di veder qui riassunta con linguaggio preciso e liberale, fin dal 1802, quella famosa teoria del prevenire e del reprimere, che alcune ingenuità dottrinarie considerano come un trovato di tempi così recenti?
Il Melzi chiudeva finalmente le sue corrispondenze, respingendo alteramente qualunque sospetto intorno alla sua lealtà, ed offrendo, come un primo ministro odierno, le sue dimissioni. “Comme il serait aussi injuste qu'absurde d'accuser ma loyauté, ainsi il serait au-dessous de moi de descendre à la justifier… J'avais pu sacrifier mon existence et mon repos au bonheur de ma patrie; mais je n'ai ni le courage ni l'envie de sacrifier mon bonheur à de viles intrigues.„
Bonaparte, reso ai sentimenti nobili e giusti da questa fiera dignità dell'amico suo, gli diede intera soddisfazione sopra ogni argomento. Cacciò da Parigi il Sommariva e i complici suoi, scrisse a Murat, biasimando la sua ostilità contro Melzi e dicendogli: “vivez bien avec lui.„ Al Cicognara, al Magenta, al Teuliè restituì, dopo poco tempo, libertà ed onori. Non accettò naturalmente le dimissioni offertegli, dicendogli anzi: “il est impossible qu'avec la confiance que je vous accorde, vous éprouviez aucune tracasserie.„ E, avendogli anche più tardi, sotto un altro accesso di stanchezza e di gotta, ridomandate il Melzi le sue dimissioni, Bonaparte gli rispondeva con una delle sue frasi sovrane: “vous êtes engagé dans la lice; il faut désormais que vous mouriez au milieu des hommes et des embarras du gouvernement des nations.„
Di questa tempra alta e veramente liberale del Melzi si potrebbe trovare la traccia in ognuna delle sue lettere, in ognuna delle sue disposizioni di governo. Era un ingegno equilibrato e coerente, che non aveva nessun pregiudizio di tempi e in parecchie cose preludeva a progressi futuri.
Quando riordinò l'Università di Bologna, nominò alla cattedra di lingua e letteratura greca una colta signora, Clotilde Tambroni. Costituì vigorosamente il servizio pubblico dell'innesto del vajuolo, disciplina ancora così discussa e così timidamente accettata, che Lorenzo d'Orlando scriveva qualche anno prima al conte Giberto Borromeo: “Mi rallegro con V. E. dell'esito felice d'una operazione tanto pericolosa come è l'innesto del vajuolo.„
Sollecito di cultura pubblica, incoraggiava di sussidj e di commissioni Ugo Foscolo, Francesco Soave, Andrea Appiani, Canova. Ordinò l'Esposizione annuale periodica di Brera; stabilì dodici pensioni pei giovani artisti che si recavano a Roma; destinava fondi dello Stato a incoraggiare la grandiosa pubblicazione dei Classici Italiani; sussidiava del proprio una splendida edizione dei celebri scritti militari del bolognese Francesco Marchi.
Delle grandi necessità politiche poi aveva un sentimento alto e sicuro. Patrocinava in ogni occasione l'ingrandimento territoriale della Repubblica, la cui mostruosa conformazione, prima dell'annessione del Veneto, diceva fonte di gravi danni e pericoli. Agli ordinamenti militari poneva tutto il suo zelo, e fin dalla prima riunione del Corpo Legislativo, aveva scritto nel suo Messaggio, con intonazione affatto napoleonica: “Poichè le armate d'Europa riappresero il cammino d'Italia, è pur forza sovvenirvi che a' suoi soldati apprese l'Italia un giorno le vie del mondo.„
Dopo tre anni di un'amministrazione governata con tanta prudenza e tanto affetto, ecco un nuovo turbine che scende dalle Alpi, l'Impero.
Un giorno, Francesco Melzi è invitato a recarsi senza indugio a Parigi dal Primo Console Presidente. La novità della richiesta fa presagire gravissimo abboccamento. Parte, lasciando il governo al Gran Giudice, colla raccomandazione di consultare negli affari importanti il Moscati e il Guicciardi. Giunge a Parigi a tarda notte, è subito condotto alla presenza del Console, e rimangono quattro ore in segreto colloquio. Quando ne usciva, la nuova rivoluzione politica era stabilita, la Repubblica Italiana diventava il Regno d'Italia, Napoleone I cingeva la sua corona e nominava Vicerè il suo figlio adottivo, il colonnello Eugenio Beauharnais.
È la terza fase del periodo italiano che ora incomincia: fase che ha usurpato, nella tradizione storica, tutta la gratitudine dovuta all'intero periodo, soltanto per quella fatale preferenza che l'uomo accorda sulle felicità oneste e tranquille alle glorie tragiche ed alle romorose sventure.
Nulla si mutava in apparenza, tranne i nomi, gli spettacoli e le uniformi; in realtà, delle due basi fondamentali su cui fino allora il governo s'era fondato, la saviezza e l'energia, la prima cominciava ad affondarsi, e la seconda, abbandonata dalla sua compagna, assumeva sempre più uno solo degli aspetti sotto cui suole presentarsi, quello della violenza.
Ad un uomo, invecchiato negli affari e nelle difficoltà politiche, come Francesco Melzi, succedeva un giovane di 23 anni, inesperto degli uomini, voglioso di piaceri e di gloria, che, soverchiato dalla immensa grandezza del genitore, non si permetteva di discutere il menomo dei cenni suoi.
Giacchè questa fu veramente la differenza caratteristica fra la Repubblica e il Regno. Nella prima, agli ordini impensati, talvolta impetuosi del Presidente era efficace correttivo la prudente fermezza del Vice-presidente; nel secondo, le volontà imperiose e precipitose del Re erano aggravate dalla leggerezza e dalla inesperienza del Vicerè. L'equilibrio era rotto fra l'autorità lontana e la saviezza vicina; questa spariva, quella cresceva; e gli eccessi napoleonici, spintisi, per la rottura dei freni, alla ricerca dell'universale e dell'impossibile, preparavano sordamente la riscossa dell'odio nelle popolazioni balestrate da così mobile tirannia.
Napoleone, divenuto imperatore, scese due volte ancora dalle Alpi a Milano; ma egli pure aveva subito la sua terza trasformazione. Non era più il generale Bonaparte, vivace, entusiasta, colla patria sul labbro e l'amore nel cuore; non era più il Primo Console, pensoso, gentile, prudente nel parlare e savio nell'operare; era un uomo ingrassato di corpo e irrigidito di animo, freddo, altiero, preoccupato di cerimonie e di etichette, insofferente di ogni contraddizione, duro cogli uomini, ineducato colle signore; il cui linguaggio era forza, la cui politica era forza; un uomo che credeva legge morale il suo capriccio, e giustizia la collera, e impertinenza la verità, e felicità del mondo la sua soddisfatta ambizione.
L'antico giacobino era imbarazzato sotto il manto imperiale. Lo portava talvolta con un fasto di cattivo gusto, talvolta se ne spogliava con soldatesca ruvidezza. Metteva la dignità nell'essere brusco anzichè nell'essere cortese. Sentenziava sopra ogni materia, e sovente, su quelle di cui era digiuno, spropositava. Si fece incoronare con pompe teatrali, con isfoggio di carrozze dorate, di cavalli bianchi, di mantelli d'ermellino, di corone, di scettri, di globi d'oro. Obbligava i parroci a vegliare di notte, nel rigido inverno, sulle porte delle chiese, per incensarlo quand'egli passava in carrozza chiusa. Aveva sulle braccia l'Europa, il blocco continentale, la prigionia del Papa, e rimproverava la marchesa Busca, figlia del suo amico Serbelloni, perchè si era presentata un giorno alla sua Corte collo stesso abito che portava il dì prima.
Questo sovrano, tutto a sbalzi e ad effetti, sterminato di genio e innamorato di forme, dava ad Eugenio consigli eccellenti in cose di governo, ma poi, giunto a Parigi, li dimenticava affatto e gli fulminava ordini e decreti in aperto contrasto coi consigli di prima. Gli diceva a Milano: “supremo interesse per voi è di ben trattare gl'Italiani: „ e da Parigi gli scriveva: “abbiate per divisa: la Francia innanzi tutto6.„ Dall'antica dicitura presidenziale: “Je vous conseille, je crois nécessaire, je trouve convenable„ era passato alla formola pura e semplice del padrone: “je veux, je vous ordonne.„ Prescriveva da Parigi la dislocazione dei corpi d'esercito e la quantità di vino che doveva bere la vice-regina incinta. Negli ultimi anni, il suo despotismo era divenuto veramente un delirio, ed ogni traccia di genio spariva
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Cusani, VI, pag. 165 e 318.