Mezzo secolo di patriotismo. Bonfadini Romualdo

Mezzo secolo di patriotismo - Bonfadini Romualdo


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Sopprimeva, con un tratto di penna, una delle istituzioni fondamentali dello Stato, il Corpo Legislativo; dava ordine che si fucilasse Andrea Hofer, violando le promesse fattegli all'epoca del suo arresto; in lotta col Papa, scriveva ad Eugenio di fare appiccare un librajo che ne pubblicava le encicliche, di mitragliare alla menoma apparenza di movimenti cittadini, di fucilare chi distribuisse coccarde papaline, fossero anche dei cardinali. Le istruzioni che mandava al principe Eugenio, per mezzo del maresciallo Duroc, respiravano una cinica frenesia di potere. “Si vous demandez a S. M. ses ordres ou son avis pour changer le plafond de vôtre chambre, vous devez les attendre; et si, Milan étant en feu, vous les lui demandez pour l'éteindre, il faudrait laisser brûler Milan et attendre les ordres…7

      Ci volevano questi ebbri furori per paralizzare i beneficj sorti dagli ordini precedenti e gli splendori che erompevano a scatti dal genio disordinato. Dal 1802 al 1814, la vita di Milano era stata grandiosa. Sentiva per la prima volta, da Lodovico il Moro in poi, gli effetti di una vera preminenza politica e civile. Era la capitale di un grande Stato, che negli ultimi anni comprendeva ventiquattro dipartimenti ed una popolazione aggirantesi intorno a sette milioni. Dopo tanti anni di vita umile, isolata, ora compressa, ora fanatica, ma sempre secondaria, il popolo milanese respirava in un ambiente largo, importante; vedeva i grandi personaggi passeggiare per le sue vie; si sentiva legato, per autorevoli solidarietà, coi grandi affari d'Europa. Lo spirito pubblico, vivo e intelligente, si metteva a livello de' nuovi destini. Elaborava uomini politici e generali d'esercito, che tenevano con onore il loro posto in quella meravigliosa generazione europea. La conversazione sociale e i discorsi popolari trovavano pascolo educativo in fatti nuovi e memorabili, che li svezzavano dall'antico pettegolezzo. Ora si vedeva aprire la via del Sempione, ora sorgevano le fondamenta dell'Arco di Piazza d'Armi, ora si metteva mano alla facciata del Duomo, ora si scavavano navigli e canali, a favore di Milano, di Pavia, di Mantova, di Brescia. Oggi era l'incoronazione di Napoleone, domani il matrimonio del Vicerè. Un giorno si discorreva dell'annessione al Regno delle provincie venete o marchigiane, un altro giorno del famoso decreto di Milano intorno al blocco continentale; poi le glorie dei nostri militari infiammavano d'entusiasmo; si udiva con dolore ed orgoglio che al Teuliè morto a Colberg l'esercito francese innalzava un monumento; s'era altieri che Napoleone avesse detto ad Aldini: “gl'Italiani ridiventeranno i primi soldati d'Europa.„ Splendidissime feste celebravano il ritorno dalle campagne germaniche dell'eroica divisione di Pino. E dal fondo della Spagna giungevano altre notizie del valore italiano, tenuto alto dal Palombini, dal Severoli, dal sergente Bianchini. Il principe Eugenio, non felice negli affari, presiedeva meglio alle feste e sosteneva bravamente le guerre. La sua Corte era il regno dell'eleganza e dello splendore; vi teneva uno scettro indisputato quella donna squisita di bellezza e di bontà che era la Vice-regina Amalia di Baviera; e intorno ad essa brillavano di splendori proprj alcune gentildonne universalmente ammirate; la marchesa Litta, la contessa Parravicini, la contessa Arese; apparve più tardi in quelle sale, e vi portò un profumo di fiera amabilità quella gentile Teresa Casati-Confalonieri, predestinata ad essere di un cupo e pietoso dramma la vittima e l'eroina.

      In tutto questo periodo di romori e di magnificenze, Francesco Melzi tiene silenziosamente ma efficacemente il posto suo. L'austero vecchio vede esplicarsi e allargarsi le conseguenze dell'onesta attività da lui impressa alle cose pubbliche, e se ne compiace; vede i pericoli che preparano allo Stato le passioni sfrenate o frivole de' suoi condottieri, e si rammarica di non poterli evitare; vede le popolazioni cementarsi, malgrado ciò, in una forte ed omogenea comunanza di vita politica, e ne trae lusinghiere speranze per un avvenire ch'egli non è destinato a vedere.

      L'imperatore Napoleone non gli scema, anzi gli accresce dimostrazioni d'amicizia e di stima. Gli aveva proposto in moglie la sorella Paolina, vedova del generale Leclerc; onore che Melzi declinò con grande riconoscenza e con maggiore prudenza. Quando la Repubblica fu tramutata in Regno, Napoleone lo nominò Gran Cancelliere Guardasigilli, coll'onorario di trentasei mila franchi; poi gli accordò, unico fra tutti gli Italiani, uno dei grandi feudi della Corona, col titolo di duca di Lodi e un appannaggio di duecento mila lire. Quando venne a Milano nel 1807, andò con grande ostentazione a visitare il Melzi nel palazzo Serbelloni, e non permise che l'illustre gottoso si alzasse dalla sua seggiola per riceverlo.

      Le lettere poi che Napoleone scriveva da ogni angolo dell'Europa all'antico amico suo respirano sempre la più grande benevolenza e la più solida stima. “Je vois avec peine que vôtre santé n'est pas aussi bonne que vôtre tête.„ “Depuis que vous gérez les affaires de l'État son administration s'est considérablement ameliorée.„ Al principio del 1812, sul punto d'intraprendere la campagna di Russia, Napoleone sente il bisogno di avere intorno alla lontana Italia informazioni sicure, ed ordina a Melzi di fargli ogni giorno un rapporto sulla situazione del Regno. Nell'archivio della famiglia si conserva il protocollo di queste relazioni giornaliere, che, senza offendere l'autorità diretta del Vice-re, servivano forse, nel concetto dell'imperatore, a controllarne l'inesperta politica.

      Fu detto che Francesco Melzi fosse stato assai offeso di vedersi, negli onori supremi del nuovo Regno, posposto ad un giovinetto senza titoli come Eugenio Beauharnais, e che il suo contegno riservato negli ultimi anni movesse da questa causa.

      Tutti i precedenti dell'uomo, i suoi carteggi col principe Eugenio e la sua condotta all'epoca della finale catastrofe dimostrano come questa supposizione non regga. Può darsi che Melzi sentisse abbastanza alteramente di sè da credersi meglio indicato e meglio atto del principe Beauharnais a dirigere, sotto e contro Napoleone, gli affari italiani. In ogni caso, era una opinione che sarebbe stato solo a non avere fra gli uomini intelligenti al di qua delle Alpi. Ma nessuna attitudine sua autorizza il sospetto che questa opinione lo avesse, nè prima nè poi, reso più indifferente alle cose del Regno o meno zelante a rimuovere, d'innanzi al principe Eugenio, le difficoltà del Governo.

      La severità del carattere si univa in lui all'artritide per allontanarlo da quelle pompe e da quelle pubblicità, onde troppo si compiaceva la giovanile spensieratezza del figlio di Giuseppina. Ma dei doveri della sua carica non fu dimentico mai e, quando vennero i tempi grossi, non risparmiò ad Eugenio consigli insieme affettuosi e severi, che, seguiti, avrebbero forse dato alle cose del Regno un avviamento migliore e prevenuta la tragedia del 20 aprile 1814.

      Intorno a questa, ed alle cause, dirette o indirette, che la produssero, c'intratterremo con qualche larghezza nel successivo capitolo.

      Francesco Melzi sopravvisse pochi mesi a quella funesta rivoluzione.

      Ridottosi a vita privata, alternava i soggiorni fra il palazzo di Milano e l'artistica villa che s'era fabbricata a Bellagio; riceveva pochi e sicuri amici; discorreva con essi di questioni politiche e di riforme educative8; si spense, religiosamente tranquillo, il 16 gennajo 1816. Uomo di carattere antico e di cultura moderna, che discende politicamente in retta linea dai grandi personaggi milanesi dei secoli antecedenti, dal Simonetta, dal Morene, da Bartolomeo Arese; austero come il primo, intelligente come il secondo; come il terzo, bramoso di conciliazioni fra le asprezze del tempo. Liberale di dottrina, perchè vissuto in mezzo ad abusi nobiliari ed a corruttele plebee, tenne sempre alti, innanzi a sè, interessi di paese, non di fazione; e per quelli non esitò ad affrontare nei pubblici uffizj Maria Teresa come i Giacobini, come il Primo Console, come l'Imperatore. Governò tempi di rivoluzione con guarentigie di conservazione; e dopo di lui bisogna giungere fino al conte di Cavour per trovare un altro italiano che abbia retto, con eguale autorità, compagine eguale di popoli appena riuniti. Ebbe a programma di rinnovazione la politica nazionale più unitaria che i tempi avessero consentito; come programma di conservazione, adottò un sistema di governo che non usciva dai limiti e non si perdeva per via; religione senza fanatismo, libertà senza frasi, disciplina senza pedanteria, ordine senza violenza, un gran sentimento di dignità dello Stato, una resistenza tranquilla ma severa alle tirannie che discendono e a quelle che salgono.

      Nel complesso, può dirsi in Italia il creatore del partito liberale moderato negli ordini di governo; poichè, prima di lui, s'era governato o con riforme di principi assoluti o con assolutismi di apostoli democratici; e, se oggi vivesse, avrebbe poco a mutare degli scritti suoi, poco a modificare de' suoi metodi e de' suoi principj nelle questioni di Stato.

      Quando morì, l'imperatore Francesco, pauroso della sua


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Du Casse, Mémoire et Correspondance du Prince Eugène.

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Fra queste bisogna mettere in prima linea l'interesse vivo e costante che portò ai nuovi metodi inglesi d'istruzione e di educazione. Fu lui che acquistò nel 1812 da un Luigi Piccaluga l'antico convento di S. Maria delle Grazie in Lodi, per insediarvi appunto una di quelle istituzioni didattiche, venute più tardi in gran riputazione fra noi, sotto la denominazione di Dame inglesi. I suoi eredi e successori continuarono e completarono in questa materia le intenzioni del loro glorioso antenato; e nel 1830 il duca Gio. Francesco cedette, con pubblico istromento, alla signora Maria Cosway, rappresentata da don Palamede Carpani, allora consigliere ispettore delle scuole elementari, tutto l'edificio di Lodi, in cui ebbe sede d'allora in poi, e mantenne alto il principio educativo, l'Istituto chiamato appunto delle Dame Inglesi.