Il perduto amore. Fracchia Umberto
hia
Il perduto amore
A Bibiche
PARTE PRIMA
Daria
I
Le stelle di cui il cielo ora è pieno, appunto perchè splendono perennemente sono un indizio certo della nostra morte. Ma io che le contemplo mentre compaiono e scompaiono, a volta a volta fra le rade nuvole naviganti l'azzurro, in aggruppamenti inaspettati e nuovi, sento scendere sui miei occhi non so qual liquido filtro che mi rende oblioso così della morte come della vita. Distrattamente ascolto i rumori e le musiche del bosco, il canto dei rosignoli nell'ombra, il fruscìo dei giunchi (di seta), le voci umane giù per i campi e nell'isolata casa del mulinaio, e sento che queste cose non sono fatte per me. Troppo semplici, troppo serene. Se, vinto, con un lieve sforzo, molto lieve, mi decidessi ad uscire dalla mia solitudine per partecipare alla festa di questa chiara notte autunnale, sarei come un orfano il quale conducesse la propria inconsolabile tristezza, abiti, volto, silenzio, in una comitiva di gente allegra e felice.
No, certo: non sono fatto per questo. Io vivo l'imperfetta vita delle ombre. Sono, come le pallide larve, distaccato dal mondo, libero di muovermi e di vagare dove mi piace, presente in ogni luogo, ed assente da ogni realtà. Eppure la mia libertà non è che un'illusione di chi giudica dalle apparenze, e non sa che sono invece inchiodato, incatenato, prigioniero della mia vita, nel momento stesso in cui essa si è fermata per sempre. Se preferisco uscire di notte, o mostrarmi là dove il bosco è più folto, dove il fiume scorre tra le più alte rupi, la ragione è che io soffro il sole, la luce mi dà un acuto dolore, e temo sempre di contravvenire ai comandi della natura, di violare una legge assoluta. La mia stessa voce, quando raramente parlo, è la voce flebile delle ombre, che sembra giungere da misteriose lontananze, fioco lamento di sotterraneo o di tomba, confusa voce attraverso soffi di vento, scrosci di correnti d'acqua, stormire di notturne boscaglie. L'aria è sempre piena per me, come le desolate lande della tragedia, di una triste lontana e invisibile musica. Ebbene: un uomo mi ha ucciso impedendomi di morire quando sarebbe stato facile per me uscire da questo viottolo angusto e spaziare nell'infinita felicità; quando la morte sarebbe stata ebrezza e gioia; e tempo, spazio, memoria, più nulla…
II
Quest'uomo, Carlo Clauss, venne per la prima volta in casa nostra quando io avevo appena vent'anni. Di lui avevo udito parlare come di un'anima perduta. Si sa che cosa intendono gli uomini timorati quando dicono: costui è un'anima perduta. A lunghi intervalli, dunque, se per caso nelle conversazioni famigliari il discorso cadeva sopra un parente morto o lontano, e mia madre prendeva il vecchio album di fotografie e cominciava a sfogliarlo, la sua mano invariabilmente si fermava sopra il ritratto di un giovane vestito di nero, con una grande cravatta pure nera e un'altissima tuba in capo, il cui volto ovale, circondato da una rada barba bruna e illuminato da due occhi stranamente dilatati e fissi, pareva la faccia di un ammalato o di un convalescente, o quella di un uomo bruciato dalla fiamma di una logorante passione. Allora il vecchio album passava di mano in mano, faceva il giro della tavola, e il nome di Carlo Clauss era ripetuto sottovoce, e seguito da misteriosi silenzi o da poche vaghe parole di commiserazione per quella «giovinezza irrequieta e avventurosa».
Ma un giorno, quando nessuno se l'aspettava, una lettera munita d'un francobollo molto grande, su cui era disegnato un paesaggio montuoso con alberi e animali inverosimili, ci portò la notizia del suo ritorno. Egli scriveva a mio padre da una città il cui nome parve nuovo a tutti noi, dicendo che «il desiderio di morire in patria» lo spingeva ad abbandonare il paese dove aveva vissuto fino allora felice. Parlava di una lunga malattia, dei molti giorni di mare che lo dividevano da noi, e, in fine, di mia madre, che egli chiamava, con un diminutivo infantile, la Minni. Quella lettera fu letta forte prima della cena e suscitò in tutti un vivo stupore. Mia madre pianse. Fu una triste sera in cui non si fece che rievocare avvenimenti dolorosi. Io seppi allora che Carlo Clauss era nostro parente e che a ventiquattro anni era scomparso dalla propria casa, era fuggito, solo, senza lasciar traccia di sè.
Due mesi dopo egli arrivò con la corriera del mattino, giacchè in quel tempo la ferrovia non passava ancora per queste valli e lungo il mare, e non se ne udiva neppure il fischio lontano. Noi, che stavamo sull'uscio in attesa, lo vedemmo scendere dalla diligenza seguito da un servo creolo, bruno e canuto, che portava i bagagli. La sua rassomiglianza con la nostra fotografia era ancor grande. Alto, diritto, con la barba e i capelli appena brizzolati, egli non rivelava nè stanchezza nè dolore. Il suo volto pallidissimo, di un pallore olivastro ed uguale, bruciava ancora di quella fiamma interna che gli splendeva negli occhi scuri, profondi e lucidi. Era bello. Anche la sua voce, il suo modo di gestire, la sua pronuncia un po' lenta e faticosa, mi parvero, al primo incontro, attraenti; pieni di quella grazia virile, così rara negli uomini non più giovani, che è fatta di serenità, di forza e di rattenuto ardore.
Seduto dinnanzi al tavolo, fra mio padre e mia madre, Carlo Clauss fece racconti meravigliosi. Io vedevo contro il paesaggio montuoso che, dietro piante frastagliate e grasse, si delineava sul francobollo della sua lettera, ingigantito dalla mia immaginazione, passare, come contro lo scenario di un teatro, carovane dietro carovane, cacce di elefanti e di tigri, pellegrinaggi, eserciti di bruni guerrieri con nuvoli di bandiere e sterminati campi di lance luccicanti, cortei nuziali d'asinelle candide, lettighe e tamburi; e battaglie, risse, mercati, pestilenze, rivolte, drammi da impazzire, e catastrofi spettacolose. Poi taceva per qualche minuto e rideva dello stupore che vedeva dipinto sui nostri visi.
– Eppure sono tornato! – esclamava. – Vi pare il caso, ora, di spaventarvi? Siamo passati attraverso il fuoco… Tutto è uguale per me.
Mia madre era quella che lo ascoltava con minor meraviglia. Il suo pensiero non era con noi.
– Quante cose sono cambiate… – diceva. – E chi le poteva prevedere?
– Certo… – rispondeva sorridendo Clauss. – Ma ora tutto è uguale per me…
Si volgeva poi a mio padre e lo guardava attentamente per dirgli:
– Tu no, tu non sei cambiato.
E mio padre si palpava il mento e le gote, e rispondeva seriamente:
– Ti sembra, ma non è così. Eravamo ragazzi allora, quando dici tu, ed ora ho un figlio grande. Non lo vedi laggiù? Sembra un querciolo…
Ma Clauss badava poco a lui e poco a me. Tutta la sua attenzione pareva concentrata sopra le mani di mia madre, ch'ella teneva posate sulle ginocchia stringendo un fazzoletto. Brillava l'anello sull'anulare. Raramente i suoi occhi si posavano anche su mia sorella Silvina.
– Eppure bisogna vivere ancora! – disse egli una volta, nel silenzio di tutti. E mi sembrò che parlasse soltanto a sè stesso, dimenticando noi altri.
Da mezz'ora l'aria s'era fatta scura, e pioveva. Ma, dopo poco, un tuono secco schiantò il silenzio e scompaginò le nuvole. Un po' di sole entrò nella stanza. Io che ero rimasto senza parlare, in un angolo, mi alzai per guardar fuori. Anche Clauss si alzò e si avvicinò alla finestra.
– Se volete, disse mia madre, potete andare sulla terrazza. Non piove più.
Salimmo dunque, noi due, sulla terrazza. L'arcobaleno era molto pallido. Il sole, già mezzo nascosto dietro il monte, dardeggiava sulla pianura un gran fascio di luce. Clauss girò intorno gli occhi, si soffermò un istante a guardare i fianchi delle montagne rigati di cascatelle candide; poi si volse a me e bruscamente mi domandò:
– E tu, ragazzo, che fai?
Per la prima volta i suoi occhi si posarono attentamente sulla mia persona. Io li sentii che mi penetravano dentro, nell'anima. Era uno sguardo impudico, un contatto quasi carnale che mi riempì di vergogna.
– Nulla… – balbettai.
Egli rise.
– Come è possibile, nulla? – soggiunse, distraendo da me le pupille, come uno che stacca le labbra da una tazza dopo aver bevuto abbastanza. – Ho avuto anch'io vent'anni. Non ridere! A vent'anni io, per esempio, non desideravo che una sola cosa: morire. Ma volevo morire eroicamente. Immagina: uno compie un'azione nobile, un atto memorando. La gente dice: – Questo ragazzo è stato capace di tanto. – Un ragazzo? Veramente un ragazzo? – Sì, un ragazzo…