Il perduto amore. Fracchia Umberto

Il perduto amore - Fracchia Umberto


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ha insultata?

      I suoi occhi si volsero un poco verso Sterpoli, che lentamente si era avvicinato a lui ed ora gli stava a fianco. Il volto del giovane di rosso s'era fatto cinereo. Aveva la fronte imperlata di sudore e a stento tratteneva il respiro. Pareva che volesse parlare, poichè ogni tanto moveva le labbra; ma senza fiato. A un tratto avanzò ancora di un passo, tese la mano, che gli tremava, fino a sfiorare il braccio della donna, e con un filo di voce mormorò:

      – Andiamo… Andiamo via… Perchè sei venuta? Perchè?

      Clauss non si mosse. Nemmeno Daria si mosse, ma un sorriso pieno di disprezzo inarcò le sue belle labbra lunghe, e illuminò il suo viso.

      Paolo attendeva, con la mano sollevata, tremante.

      – Infine! – esclamò Clauss con un gesto d'impazienza. – Io non so di che cosa mi possiate accusare… Sono vostro amico… Ho tentato ogni via per piacervi… Che debbo fare ancora per voi?

      Daria abbassò il capo, respinse con un moto violento della mano la mano sempre tesa di Sterpoli e si abbattè piangendo sopra una sedia.

      Un profondo silenzio seguì quell'avvenimento inaspettato.

      – Piange? – mormorò una voce alla mie spalle. – È mai possibile? È anche capace di piangere?

      Il volto di Sterpoli esprimeva una vera costernazione. Anch'io ero sconvolto e guardavo ora la donna che piangeva con piccoli singhiozzi simili al tubare delle colombe, ora Clauss immobile, e ora Sterpoli che tremava.

      – Che accade? – pensavo. – Chi è questa donna? E perchè piange?

      Mi curvai un poco e le dissi:

      – Non piangete… Non è il caso di piangere!

      Ebbi paura del silenzio che accolse la mia voce. Daria infatti sollevò il capo.

      – Chi è costui? – domandò dopo un istante. – Che cosa vuole da me?

      – Nulla, – balbettai, – nessuno…

      S'era fatto un gran vuoto nel mio cervello. Ma la vampa che m'affocò il viso m'avvertì che m'ero coperto di ridicolo.

      – Nulla… – ripetei senza comprendere il senso delle mie parole. Dico che non si deve piangere… Come potete piangere dinnanzi a tanti uomini?

      Poi mi ritrassi in un angolo e nascosi il viso fra le mani per coprire il mio rossore. Con gli occhi chiusi non udivo più nulla. La donna non piangeva più; aveva cessato di piangere, di tubare, e nessuno parlava. Di lontano, confuse, giungevano fino a noi le cadenze d'una danza turca, e un ronzìo di voci umane mescolate al rullar persistente di un tamburo. – Che accade? – pensavo senza trovare il coraggio di muovermi. Pareva che tutti fossero morti intorno a me o che tutti se ne fossero andati. Improvvisamente Clauss esclamò:

      – Daria! Daria, ti amo!

      Udii un grido, apersi gli occhi e vidi Daria alzarsi in piedi sconvolta. Con un gesto rapido, violento, strappò dal suo collo la collana con lo smeraldo e la scagliò dinnanzi a sè gridando: – E io ti odio! Poi si volse e fuggì.

      Sterpoli ricevette il colpo sugli occhi come una frustata, restò un istante fermo con la mano distesa sulla fronte e le palpebre chiuse. Balbettò: – Non era per me! Era per te, per te Clauss, per te solo! – e brancolando uscì dalla stanza.

      – Daria! Daria!

      Il suo richiamo si ripetè due volte e poi si spense. La porta sbatacchiò. Parve, quando la porta fu chiusa, che sopra di noi si fosse dissipato un temporale.

      – Sono dolentissimo, amici, – disse con dolcezza Clauss, – di quanto è accaduto. Veramente non c'è nemico peggiore di una donna…

      – Come è possibile? – domandò con grande vivacità quel giovine che poco prima parlava dell'anima. – Ha pianto! Questo è straordinario!

      – È una donna, – soggiunse Clauss sorridendo.

      – Ma perchè è venuta? – domandò un altro.

      – Per mentire… – rispose Clauss.

      Poi mormorò: – Me ne vado.

      Ce ne andammo: io solo lo seguii. Il teatro era ormai semivuoto. Un vecchio in marsina era caduto rotoloni giù per le scale e un servo cercava di tirarlo su per le falde. Fuori la notte, alta, serena e molto stellata ci sorrise, ed io la contemplai con gioia tra le due fila di case, lungo tutta la strada, da un lato e dall'altro. Lentamente c'incamminammo. Clauss mi teneva per mano. La sua mano era fredda.

      – Vedi, – mi disse dopo un lungo silenzio appoggiandosi al mio braccio, – senza volere tu hai umiliato quella donna… Con molta semplicità (troppa semplicità) l'hai toccata nella sua piaga…

      – Come? – mormorai. – Io l'ho umiliata?

      – Sì. Se tu le avessi detto: – Orsù, Daria, non vi vergognate di piangere? – non l'avresti maggiormente umiliata ed offesa. Così l'hai ferita nel suo orgoglio. Infatti che cosa diventa l'orgoglio di una donna che piange? In un momento simile?

      – È vero, è vero… – mormorai. – Io non sapevo… Ah! Clauss! Io non so niente!

      – Ora, – soggiunse Clauss con dolcezza, – son certo che ella non odia nessuno tra noi quanto te. Tu solo sei stato pietoso. Tu e Sterpoli. Ma Sterpoli non conta.

      Eravamo giunti dinnanzi al cancello della sua casa. Egli si fermò e mi disse:

      – Ritorna domani. Ho bisogno di te. Addio!

      Mi strinse la mano. Poi mi baciò sulla gota e soggiunse:

      – Spero che non crederai davvero che io sia innamorato di Daria. Io non ho mai amato nessuno…

      E mi lasciò solo.

      V

      Solo, nella mia camera, alla luce di un povero lume, ripensai lungamente alla strana avventura di cui ero stato spettatore. Ero ancora pieno d'onta per quella voce che aveva detto: – Chi è costui? Che cosa vuole da me? – con tanto disprezzo; e della mia voce che aveva risposto: – Nulla… nessuno. Lo stesso rossore mi avvampava il viso, ed io vedevo lei, Daria, seduta, in quell'atteggiamento aggressivo; vedevo la curva sprezzante della sua bocca, sentivo la sferza dei suoi sguardi ardenti su me, mentre diceva: – Chi è costui? Che cosa vuole da me? Certamente l'avevo offesa; volendo consolarla, l'avevo umiliata. Ella mi odiava, ora, per la mia sciocca pietà, per quelle mortificanti parole che non avevo saputo trattenere. Ma se per poco dimenticavo me stesso, un'altra sua immagine si delineava dinnanzi ai miei occhi, balzando viva dalla confusione dei miei ricordi. Vedevo la porta aprirsi e apparir lei con il mantello avvolto; e poi appoggiarsi al tavolo, senza forze, e abbandonare con le mani il mantello che si apriva scoprendo il suo collo niveo, la sua nitida gola, su cui la pietra, verde, oscillando, splendeva. – Io non posso più sopportare!.. – aveva esclamato. – Io ti odio! E la sua voce era come uno specchio velato, l'eco di un'altra voce. E Clauss, calmo, senza scomporsi, aveva risposto: – Non è vero! Una terza immagine s'illuminò: Behela.

      Le stelle nel quadro della finestra, immobilmente accese, segnavano nel profondo azzurro mete irraggiungibili. Di quando in quando gli occhi, smarrendosi in quell'infinito, deviavano i miei pensieri dal loro angusto viottolo; schiudevano orizzonti verso i quali essi, come uccelli prigionieri, si lanciavano a volo per ricadere, subito, esausti, cagionandomi ogni volta un acuto dolore. Chiusi le imposte. Tutto in me acquistò maggior chiarezza, contorni precisi, una consistenza quasi materiale.

      Daria, Daria, era bella. Non avevo pensato ancora alla sua straordinaria bellezza. Ora, sì. – È bella! ripetevo fra me. I suoi occhi, la sua bocca, la sua gola candida, si delineavano nella ombra delle mie palpebre chiuse. – È bella! È bella! Questo pensiero mi turbava. Cominciai a passeggiare irrequieto per la stanza. Nemmeno allora sapevo spiegarmi perchè mi fossi inchinato per dirle: – Non piangete. Non è il caso di piangere. Ella piangeva. Il suo sdegno, la sua forza l'avevano abbandonata. Piangeva con singhiozzi brevi, disperati. Ed io non cercavo di spiegare


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