Il perduto amore. Fracchia Umberto
tu vuoi burlarti di me…
– No, no, non mi burlo nè di te nè di me stesso, – rispose Clauss con la medesima voce sommessa, senza tralasciare di tenermi le mani e di guardarmi teneramente. – Io sono nato matematico. Tutta la mia vita, in apparenza tanto disordinata, fu sempre regolata sopra un calcolo esatto, secondo la nozione precisa e minuta delle mie forze. Quando scaglio una pietra, non so forse dove la pietra deve cadere? Ciò dipende unicamente dall'impulso che io le darò. Così per tutto il resto…
S'interruppe e guardò una farfalla sopra una rosa, un'ape sopra un fiore.
– Tu non mi hai mai domandato, – soggiunse, – perchè dunque liberassi l'uccisore di Behela. Io infatti tagliai la sua corda, vicino al nodo. Ma con quella stessa corda, come prevedevo, l'omicida s'impiccò il giorno dopo a un albero della foresta.
Io tenevo gli occhi fermi su lui, mentre parlava. Può darsi che egli non mi leggesse negli occhi altro che un ingenuo stupore; ma in realtà ero ben sveglio, e cercavo di capire, guardandolo attentamente in viso, che cosa ci fosse di tanto strano e di nuovo nella sua persona: se la voce, lo sguardo, o l'abito, che era bianco. Quanto a lui, pareva veramente turbato da non so quale nascosta preoccupazione, come inquieto, incerto, non così sicuro di sè come sempre.
– Paris, – disse ad un tratto, – ti sembrerà ch'io sia capriccioso come un ragazzo. Non so che cosa tu possa pensare di me: pure voglio che tu mi aiuti a uscire da questo equivoco che mi ripugna e mi addolora. Daria… – (e quel nome risuonò al mio orecchio come un richiamo, come un allarme) – Daria…
– Ebbene? Daria? – domandai con un palpito.
– Daria è una donna. Bisogna essere pietosi con lei e perdonarla.
Rimanemmo un momento muti. Io aspettavo che egli continuasse, ed egli non parlava.
– Perchè, – mormorai alfine, – perchè, allora, ieri sera, non sei stato pietoso con lei, quando si è messa a piangere?
Silenzio.
– Perchè, – continuai con gli occhi bassi, le gote che mi cominciavano a bruciare, – perchè mi hai rimproverato d'aver tentato, io, io solo, di consolarla quando piangeva?
Clauss m'accarezzò con dolcezza la mano e disse:
– Hai ragione… Appunto per ciò ora sento che debbo io fare qualche cosa per lei. Dunque (questo appunto volevo dirti) tu andrai a casa sua e la pregherai di venire qui, a cena con noi, stasera…
– Con noi?
– Ti dispiace forse?
– No, no, – balbettai, – no, Clauss, non andrò da lei… No, non pensarlo seriamente neppure un minuto che io possa andare da lei, presentarmi, parlarle… sostenere quello sguardo… riudire quella voce cattiva… No, no, Clauss, non è possibile!
– E di che hai dunque paura, stupido? – domandò Clauss bruscamente.
Ecco: davvero avevo paura, un'indicibile, una pazza paura. Se mi fossi imbattuto in Daria, per caso, all'angolo di una strada, sentivo che avrei preferito, a quell'incontro, di inabissarmi in una buca profonda mille metri, e non uscirne mai più. Avrei preferito qualunque supplizio, o vergogna, o castigo, al pensiero di dovermi trovare solo di fronte a lei, costretto a guardarla, a parlarle, anche semplicemente a inchinarmi senza pronunciare una parola, o muovere un gesto, o battere palpebra. Ma ero anche così sciocco, che a udire quella parola – «stupido» – la paura svanì d'un tratto, e mi sentii disarmato e pronto tuttavia a superare ogni prova con un coraggio disperato.
– Non è che io abbia paura, – mormorai. – Penso soltanto che riconoscendomi per quello di ieri sera non voglia neppure ascoltarmi. Un altro forse riuscirebbe meglio di me.
– Al contrario! – esclamò Clauss alzandosi. – Quando ti avrà riconosciuto non dubiterà d'un inganno. Basta che tu le dica che io non l'amo, che io non l'odio, che io non voglio essere per lei se non un amico sincero e fedele. E che noi tre insieme desideriamo questa sera concludere solennemente la pace.
Mi condusse presso il cancello. Camminando pensai ancora:
– Ora gli dirò che cerchi un altro. Io non andrò a nessun costo…
Ma quando mi strinse la mano per accomiatarmi non seppi che dirgli:
– Arrivederci.
Così attraversai la città e andai dove Clauss mi mandava. Alla porta di quella casa non c'era un campanello. Bussai, una vecchia mi venne ad aprire ed entrai in un salotto alle cui finestre pendevano pesanti cortine di velluto. La casa, dentro, aveva piuttosto l'aspetto di una bottega; tutto era gualcito e in disordine. In un angolo stava un pianoforte aperto con un quaderno di musica sul leggio. Da una stanza vicina giungeva il parlottare di più persone. Io udivo distintamente le loro voci, che erano di due donne e d'un uomo, e vedevo chiaramente, malgrado la penombra, le cose che mi stavano intorno. Non mi sentivo affatto turbato: anzi avevo una grande lucidità di sensi e un'assoluta padronanza di me stesso. Provai a muovermi; andai verso le finestre, dischiusi un poco le tende, vidi altre finestre, di fronte, e due teste di fanciulli che sporgevano da un davanzale, e una portava una maschera da arlecchino. Poi mi avvicinai al pianoforte, sfogliai il quaderno di musica, lessi due o tre parole tedesche e una frase italiana – lento, con passione – e rimisi ogni cosa al suo posto. Poi, ancora, m'avventurai in un angolo per guardar da vicino il ritratto di una donna giovane, molto giovane e bionda, che mi sorrise. Contento e soddisfatto di tante prodezze, ritornai in mezzo al salotto ed attesi. Finalmente il chiacchierìo nella stanza vicina tacque, la porta si aprì e Daria entrò.
– Daria! – esclamai subito inchinandomi, senza pensare che quel nome non conveniva nè a me nè a lei, in quel momento. – È Carlo Clauss che mi manda… Egli vorrebbe…
M'arrestai confuso. Daria era rimasta ferma nel vano dell'uscio e mi guardava. Quello sguardo mi sgomentò.
– Clauss? – sibilò ridendo ironicamente. – Avrà sempre dei servitori ai suoi ordini, questo signore? E anche voi siete del numero?
Si volse, sporse il capo nell'altra stanza e chiamò:
– Kate! Ave! Ave!
S'udì, in quello spaventoso silenzio, il rumore di un paio di ciabatte e di due tacchi di legno. Una vecchia strega e una ragazzina di quindici anni, tutta vestita di rosso, con i polpacci e le ginocchia scoperte e un gran nastro rosso nei riccioli, bocca rossa, occhi bianchissimi e immensi, s'affacciarono dietro le sue spalle e mi guardarono. La vecchia guardò piuttosto il soffitto, rovesciando le pupille che erano velate di bianco, mentre tutto il suo viso color di cera e orribilmente liscio si torceva nello sforzo di attrarre un po' di luce in quei due poveri lumi spenti.
– Soave! Guardalo! – esclamò Daria: – è uno di quelli di ieri sera! Kate, cerca di vederlo, perchè ne vale la pena! È uno dei tanti sguatteri di Clauss. Bella gente! Eccoli come son fatti! Che grandissimi signori! Guarda che portamento, che chic, che cravattino, che pettinatura, che profumo, che faccia da moccioso! Questi sono i padroni dell'Alhambra, i conquistatori di donne!
Mi danzava quasi intorno, con tanti inchini, e smorfie, e sorrisi beffardi, mentre con gli occhi pareva mi volesse divorare e graffiarmi con le sue piccole unghie rosse. Poi come un turbine si precipitò sulla porta, la chiuse sulle facce attonite della vecchia e della bambina, e mi domandò:
– Che cosa può volere ancora da me il signor Clauss? Vuole che io cada si suoi piedi, trafitta? Perchè non può vivere senza di me? Forse perchè se non l'amo si uccide?
– No, no! – gridai. – Clauss non vi ama e non chiede nulla di simile.
Ella allora uscì dal vano dell'uscio, ridendo ancora, ma più umanamente, e venne fino a me, mi porse la mano, come se con quel gesto intendesse cancellare tutto il passato, ed ambedue ci sedemmo l'uno di fronte all'altra in un angolo.
– Se è così, – mi disse, – eccomi pronta ad ascoltarvi. Ma come sapete voi che Clauss non mi ama? Lui stesso ve lo ha detto?
– Sì,